Francesco Vecchio ucciso 26 anni fa da Cosa Nostra Delitto impunito. Figli: «Memoria non è un giorno solo»

«Francesco Vecchio era un padre come tanti altri. Attento ai bisogni della sua famiglia, sempre affettuoso e molto presente». Inizia così il racconto di Salvatore Vecchio, figlio di Francesco, direttore del personale dell’acciaieria Megara di Catania, ucciso il 31 ottobre 1990 in un agguato mafioso in cui rimase coinvolto anche l’amministratore delegato, Alessandro Rovetta. Francesco, per gli amici Ciccio, era originario di Lentini; stava tornando a casa dopo un’intensa giornata di lavoro quando l’auto a bordo della quale viaggiava venne prese di mira dai killer. 

«Mio padre non era nel posto sbagliato, al momento sbagliato, anzi. Amava fare il suo lavoro con onestà e fino all’ultimo giorno della sua vita ha compiuto il suo dovere da uomo libero e consapevole, non ha mai chiuso gli occhi di fronte al malaffare, era semplicemente una persona normale e a qualcuno ha dato fastidio proprio questo, la sua normalità. Negli anni ’90 non c’era un’attività di contrasto alla mafia nella società civile. Chiunque, a parte pochi, era convinto che la mafia non esistesse e che omicidi, stragi e quant’altro non ci riguardassero».

Le minacce sarebbero arrivate quando, nell’estate del 1990, la gestione dei rapporti tra la Megara e le aziende satellite passò nelle mani di Francesco Vecchio che nella sua qualità di direttore del personale, decise di controllare anche le presenze al lavoro dei dipendenti di tali società. La sua presenza era diventata scomoda anche per «una cerchia di persone ricattate da Bernardo Provenzano – spiega Salvatore –. All’epoca mio padre denunciò le lettere minatorie, le chiamate anonime ricevute in azienda, ma non ci furono esiti. Le sue denunce restarono lettere morte. Lui in famiglia non parlava mai del suo lavoro e non trasmetteva le sue ansie. Tutti noi, ovviamente, eravamo preoccupati, ma lui ci rassicurava, ci diceva che si sarebbe risolto tutto. Ma nel giro di pochi mesi, mio padre venne ucciso».

«Quel giorno fu un dramma – racconta Pierpaolo, il secondogenito che lavorava al fianco di Francesco – io avevo notato dei comportamenti strani da parte di mio padre, lo vedevo molto taciturno, però non ci diceva cosa stesse accadendo. Finimmo di lavorare intorno alle 17, io dovevo andare a ritirare un televisore e salutai papà, con la promessa di rivederci a casa. Invece, quando tornai, mio fratello Salvatore mi annunciò la notizia devastante: mio padre e il signor Rovetta erano stati uccisi. Mi ci vollero anni per superare la sofferenza, ancora oggi faccio fatica a parlarne, nonostante siano passati 26 anni».

I mandanti e gli esecutori di quell’omicidio non hanno ancora un nome. Pare che siano già state seguite tante piste investigative e le rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia, ascoltati dopo tanti anni su richiesta di Salvatore Vecchio, non avrebbero riscontri con la realtà. «È rimasto tra i pochi omicidi di mafia a Catania dell’ultimo ventennio ad essere ancora impunito – sottolinea il figlio -. La memoria non può essere limitata al ricordo di un giorno, di una ricorrenza, la memoria deve essere un processo di costruzione di un sistema diverso da quello per cui persone come mio padre e come il signor Rovetta sono morte. Catania non ha mai ricordato mio padre – nemmeno l’azienda ha mai ricordato i sacrifici di questi due uomini, che hanno pagato con la vita il fresco profumo della libertà. Solo Acireale e Lentini hanno commemorato la figura di Ciccio Vecchio, la prima intitolandogli una piazza alla presenza di don Ciotti, la seconda posizionando una targa che riporta anche il suo nome in Villa Marconi (recentemente distrutta da tre minorenni  ndr)».

Danilo Daquino

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