«Una persona anziana chiamata per stabilire torto e ragioni», ma anche «il custode di tutti». Sono solo due delle definizioni che Francesco D’Agati, per gli estimatori zio Ciccio, ha dato di sé durante gli anni in cui la sua voce è finita nelle cuffie dei carabinieri del Ros, che ieri hanno chiuso il cerchio attorno al clan Fragalà attivo nella zona sud di Roma, a ridosso della costa tirrenica, nell’area compresa tra i centri di Torvaianica, Pomezia, Ardea e Tor San Lorenzo. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Roma, ha portato all’arresto di oltre trenta persone.
Tra loro, D’Agati è il più anziano. Iscritto nei registri dell’Anagrafe di Palermo il primo gennaio 1936, l’uomo è considerato dai magistrati referente per Cosa nostra a Roma, con una capacità di mediazione riconosciuta da giovani leve e capi dei gruppi criminali – non solo siciliani, ma anche campani e calabresi – che hanno scelto l’hinterland della Capitale per stabilire i propri affari. «Un pezzo grosso… u zu Cicciu», lo definì tre anni fa Gaetano Mirabella, ergastolano che godeva della semilibertà e che di recente è stato arrestato nell’inchiesta Capricornus della procura di Catania. Proprio con quest’ultimo, conosciuto negli ambienti malavitosi come Tano Cipudda, D’Agati si lascia andare a un personale amarcord.
Il leit motiv è quello (discutibile) di sempre: non esiste più la mafia di una volta. «C’erano rispetto, educazione, dignità e orgoglio», commenta Mirabella, quando D’Agati rammenta il periodo trascorso a Milano. Sono gli anni Settanta. «Che era bello, i piccioli non sapevamo dove metterli», ricorda D’Agati. L’uomo passa in rassegna tanto i catanesi Angelo Epaminonda, Jimmy Miano e Santo Mazzei quanto i palermitani Tanino Fidanzati e Luciano Liggio. Un’esperienza, quella meneghina, contrassegnata dalla supremazia nei confronti della ‘ndrangheta. «A Milano non si muoveva foglia senza il nostro volere. I calabresi lo sai come si inchinavano?», ricorda D’Agati.
Questi sono solo alcuni dei nomi di mafiosi che hanno incrociato la vita dell’83enne, il cui fratello Giovanni è stato capo del mandamento di Villabate. A essere estratti dal cilindro della memoria sono anche Pippo Calò, lo storico boss di Porta Nuova che proprio a Roma fu particolarmente attivo, i fratelli Alfredo e Pippo Bono, Nicolò Milano – già consuocero del Papa Michele Greco – e Pippo Calderone, il boss catanese che sedeva nella Commissione interprovinciale di Cosa nostra. E dato che il passato è foriero di insegnamenti, D’Agati cita un episodio accaduto proprio a Calderone per dare rassicurazioni sul presente: negli anni 50, il mafioso catanese sarebbe stato schiaffeggiato da Totò La Barbera per diatribe legate al contrabbando di sigarette. D’Agati, così come altri palermitani, prese le parti di Calderone. E questo nonostante ci fosse «qualcuno che diceva che parlavo dei catanesi come se non erano persone».
Ma da dove nasce la necessità di tale specificazione? Per i magistrati romani la risposta sta nel fatto che per D’Agati l’unico campanilismo accettabile è quello a difesa di tutti i siciliani. In quel momento – siamo nell’estate del 2015 – dalle parti di Tor Bella Monaca c’era in atto una querelle tra il clan Fragalà e alcuni soggetti vicini al clan camorristico dei Senese. Al centro delle tensioni c’erano stati i rapporti tra Salvatore Fragalà e un rivenditore di auto, che aveva riscosso alcuni assegni dati a titolo di garanzia. Da lì si era passati alle minacce e a un tentativo di estorsione, fino a quando il rivenditore – con contatti nei Senese – aveva risposto ordinando un pestaggio di un uomo vicino ai Fragalà. Della faccenda si era interessato anche un soggetto legato alla ‘ndrina calabrese dei Mancuso.
La delicatezza della situazione era stata rimarcata dal coinvolgimento di D’Agati voluto dai Fragalà. L’anziano dal canto suo non si tira indietro, confidando anche nei buoni rapporti avuti con i Senese. Anche se la cautela era comunque d’obbligo, considerata anche la diversa cultura mafiosa che, a suo dire, differenziava il clan campano dai siciliani: «Purtroppo io vengo dalla scuola del grande rispetto», afferma D’Agati davanti a Mirabella. Alla fine, tuttavia, ogni dissidio rientra. A giocare a favore della pax è infatti anche un incontro con un altro «vecchio», Vincenzo Senese, padre di Michele, il boss conosciuto come ‘o Pazz. «Sono arrivato io prima che si commettesse qualche errore», dice in un’occasione D’Agati. Anziano boss, nostalgico dei tempi andati, sempre pronto a dare una mano ai detenuti, organizzare pranzi conviviali e augurare morte atroci ai pentiti.
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