Eppure, per arrivare a quel cancello, il secondo dopo lo stabilimento Ibi continuando fino in fondo per
via conte Federico, non ci vuole poi così tanto, malgrado la distanza dalla città. Varcarlo significa ritrovarsi di colpo in un luogo tanto nascosto e protetto quanto sotto gli occhi di tutti, fondo Favarella, ultimo strascico del polmone verde dimenticato di Palermo, a Ciaculli. Quarantacinque ettari, la maggior parte inselvatichiti, che odorano tanto di agrumi quanto di sangue. La sua è una storia, infatti, che intreccia i destini di due famiglie molto diverse tra loro, quella nobile dei Tagliavia da un lato e quella mafiosa dei Greco dall’altro. «Qui potevano fare quello che volevano, da quella parte in un attimo si arriva a Ficuzza e a Corleone, Palermo è invece da quell’altra e più in là ancora ci sono Villabate e Bagheria. Qui non ti vede nessuno, non ti sente nessuno, non ti becca nessuno». Roberto Tagliavia, narratore d’eccezione, è un discendente diretto di quel conte che la Favarella l’aveva scelta come dimora per la sua tenuta. A guardia della quale aveva deciso di mettere uno degli uomini più rispettati della borgata, Giuseppe Greco.
«Conosciuto da tutti come
Pidduzzu ‘u teniente, entra alla Favarella perché il conte Tagliavia caccia il mafioso Pace, che era quello che sovrintendeva prima a questi terreni. Ebbero una lite, Pace schiaffeggiò addirittura il conte. Che decise quindi di prendere qualcun altro, un personaggio autorevole della borgata, uno che era stato carabiniere». È proprio quel Giuseppe Greco, che si guadagna quel soprannome per via della sua militanza nell’arma. «Chi meglio di un carabiniere poteva garantire l’ordine?». I Greco, in questo modo, si installano dentro la tenuta. «Parliamo di un’epoca in cui non c’erano i telefonini ma neppure strade, qua eri perso, non ti trovava nessuno, venivi e non sapevi se tornavi – racconta il discendente del conte -. Dovevi avere quindi persone che con te avessero un buon rapporto e in grado di capire chi si muoveva nella borgata. Questa zona, compresa la vicina Villabate, è stata sempre complessa, luogo di conflitti armati». Una borgata sporca di sangue, insomma. Quello, ad esempio, dei sette carabinieri saltati in aria la sera del 30 giugno 1963 con un’autobomba, in quella che è passata alla storia come strage di Ciaculli.
Pidduzzu Greco, uomo di bell’aspetto che faceva luccicare gli occhi alle donne della borgata, era un gentiluomo garbato e dal baciamano facile, ma era anche il capomafia di Croceverde-Giardini prima, e di Ciaculli poi. È sotto la sua protezione che iniziano a muovere i primi passi i due figli, Michele Greco, detto il Papa, per la sua abilità nel mediare fra le famiglie mafiose, e Salvatore Greco, detto invece il senatore, perché vicino agli ambienti politici cittadini. «Iniziano subito a stabilire rapporti con ambienti importanti della città – racconta Tagliavia -. Nel dopoguerra controllavano i voti contro i fascisti e contro i comunisti, nella borgata erano temuti e rispettati, due cose diverse ma che camminavano assieme». Morto Pidduzzu, restano i due figli a controllare tutto. Ed è a questo punto della storia che si inseriscono i fratelli Gioia, anche loro della borgata, che grazie al matrimonio di una loro zia con un Tagliavia diventano un ramo della nobile famiglia palermitana. «Motivo per cui – racconta oggi l’erede – nell’agenzia omonima di navigazione, di cui resta ancora qualche traccia oggi nelle vetrine di via Cavour, si decise che uno dei due doveva diventare l’avvocato della società, “ormai è parente nostro, è uno bravo”, dicevano. E il conte, che cominciava ad essere vecchio, acconsentì. Non lo avesse mai fatto».
Perché i Greco decidono poco dopo di fare causa al conte, con la legge introdotta dai comunisti per ridare le terre ai contadini, affermando che le terre della tenuta fossero loro perché le avevano coltivate. Da semplici affittuari a proprietari della Favarella, insomma, secondo il loro modo di vederla. Una causa persa. Che diventa però
l’occasione per stabilire un accordo con l’avvocato Gioia che avrebbe dovuto difendere i Tagliavia. «Voi non uscirete mai da Ciaculli, ci penso io – promette a sorpresa il legale ai Greco -. Però la causa la perdete, ma garantisco che non uscirete mai, perché ormai il conte è vecchio e farò confluire tutti i beni in una società contenitore che amministrerò io». Cioè la Sat (Società alberghi e turismo), attraverso cui mettere in piedi precise operazioni economiche «consentendo sostanzialmente ai Greco di impadronirsi a condizioni estremamente vantaggiose di gran parte dell’ eredità del conte Tagliavia», come scrisse anche Giovanni Falcone. «Un piano criminale di impossessamento fatto prima ancora di avere la pelle dell’orso, visto che il conte era ancora vivo. Una sorta di accordo elettorale», ribadisce oggi Roberto Tagliavia. Morto nel’65 alla veneranda età di 96 anni, il conte ha lasciato ai suoi eredi un patrimonio miliardario del quale però, ancora oggi, non hanno avuto nulla.
La proprietà, perciò, non è mai stata direttamente dei Greco. Motivo per cui, «anche se per tutta Palermo questa era la loro tenuta»,
non viene mai sequestrata. Neppure nel 1986, quando il Papa viene scovato nelle campagne di Caccamo, dove si nascondeva, arrestato e condannato poi al maxi processo. «Il principio della proprietà privata è stato sconvolto dalla pratica del possesso. Possesso che però era anche legato a un contratto di affitto che presupponeva l’attività agricola dei soggetti che la conducevano, mi nacque quindi spontanea una domanda: come fa uno condannato all’ergastolo a condurre un fondo agricolo? A questo semplice interrogativo a Palermo nessuno rispondeva, soprattutto nella società che nel frattempo aveva avuto nuovi amministratori». Finché Roberto Tagliavia e i suoi familiari si rivolgono a un giudice: «Io avevo avuto la prova che nessuno di coloro che aveva l’affitto di appezzamenti all’interno della tenuta, che erano tutti parenti dei Greco, svolgeva l’attività agricola. Quindi non la svolgeva Michele Greco in primis che era in carcere e non la svolgevano i suoi parenti. Abbiamo fatto la causa e ne fu disposto l’allontanamento, il giudice ci ha dato ragione – spiega -, ma ha detto anche che dopo la condanna di Greco all’ergastolo era stato nominato un tutore».
Cioè suo figlio Giuseppe, che faceva il regista e si faceva chiamare Giorgio Castellani,
che non voleva fare il mafioso ma soprattutto non voleva fare neanche il contadino, quindi anche lui non era un coltivatore. È il 2005 e i Tagliavia provano dopo anni a presentare il conto a Cosa nostra per quello ha illegittimamente sottratto loro. Tre anni dopo Michele Greco muore e, altri tre anni più tardi se ne va anche il figlio, stroncato da un tumore. «A questo punto noi abbiamo alzato un muro. Ma i Greco rimasti lamentavano il fatto che la loro proprietà fosse proprio al centro della tenuta. Ci siamo quindi rifatti alla sentenza del giudice, quella secondo cui loro sarebbero dovuti andare via e noi eredi li avremmo dovuti risarcire per quanto fatto negli anni della loro gestione del fondo. Solo che noi non avevamo una lira perché il guadagno di questa produzione di mandarini è andato a loro – spiega Roberto Tagliavia -, perciò gli abbiamo proposto di cedergli una struttura, l’ex tenuta del conte, e un pezzetto di terra. Per loro, agli occhi della borgata, era un modo di rimanere qui. E per noi era un modo di buttarli fuori. Abbiamo alzato il muro e li abbiamo allontanati». Ma rientrare nei luoghi della tenuta, finalmente, ha un sapore amaro. Dell’eredità del conte non resta quasi più nulla, se non quei vecchi edifici dove in giro non ci sono che strascichi del vecchio boss, fatta eccezione per le bobine di quel figlio che la mafia l’aveva rinnegata.
Nel primo, a pochi metri da quel vecchio cancello su via conte Federico, campeggiano ancora
le iniziale di Michele Greco e all’interno resistono al tempo i resti di una vecchia tavernetta di vini, mentre stipati in un angolo ci sono ancora, ammassati uno sull’altro, dei portatovaglioli di plastica rossi, come quelli dei bar: «Li usava per le tavolate con gli ospiti – dice Roberto Tagliavia -. Quello che mi ha sempre impressionato sono i numeri scritti sopra col pennarello nero: 24, 25, 26…insomma, veniva proprio un sacco di gente a trovare il boss». Per qualcuno, però, una di quelle tavolate sarebbe stata fatale: «Da quello che so dal racconto di alcuni pentiti, qui è stata eliminata la cosca di San Lorenzo: furono invitati a pranzo per una paciata, poi strozzati tutti a fine pranzo e fatti scomparire». Viene da chiedersi quanti segreti, tra corpi e fantasmi, nascondano questi antichi agrumeti. Ma tra un salone e l’altro che ospitava mangiate e incontri, c’è anche una botola da cui parte una lunga scala che porta a una grotta sotterranea. «La prima volta che l’ho precorsa tutta ho sentito questi fili sfiorarmi la testa, li ho seguiti fino a quando ho toccato una lampadina e le mie gambe hanno urtato una rete di materasso». Una grotta da cui si può accedere anche dall’esterno dell’edificio, attraverso un cancelletto alle sue spalle. È lì che vengono discusse e decise, forse, le cose più scottanti, le cose indicibili. «Mi ha fatto impressione sapere che nello stesso momento in cui io ero a Corleone alle prese con la militanza nel Partito Comunista, qui Michele Greco e i suoi decidevano l’omicidio di Pio La Torre».
Ma che ne è oggi della famiglia del
Papa? «Il fratello Salvatore è scomparso, ne è stata dichiarata la morte presunta – racconta ancora l’erede del conte -. Non so cosa e chi resta al di là del muro che abbiamo eretto. Soprattutto dopo l’ultimo arresto, quello del nipote di Michele Greco, Leandro, che viveva nel mito del nonno e si faceva chiamare addirittura come lui. Evidentemente aveva pensato di fare anche lui il mafioso di borgata. L’impressione che ho io è che sono sempre le stesse persone, alla fine, le stesse persone che ritornano. Il lavoro che deve essere fatto è lungo e profondo, non può essere fatto solo dalle forze di polizia, penso alla scuola soprattutto. Ma non illudiamoci, su dieci ragazzi otto li convinci ma ce ne saranno sempre due che vorranno restare dentro a quest’altra cultura». Lo dice con amarezza, malgrado fondo Favarella sia diventato tappa fissa di molte scuole, «ma tutte del nord – precisa subito -, qui le scuole palermitane non vengono e non so nemmeno perché». Un vero peccato, visto che il suo sogno è quello di trasformare un giorno la Favarella in un luogo aperto a tutti, specie ai giovani. «Un posto a disposizione della città, dove poter portare chiunque, dai bambini agli anziani», dice, mentre osserva in silenzio quello che resta oggi della conca d’oro. «Ci vogliono i soldi, perché le idee non mancano. La cosa principale è restituirla alla città e fare in modo che la percepisca come propria, come accessibile. Un luogo dove venire a comprare frutta e verdura a chilometro zero, dando la possibilità anche agli agricoltori di coltivare la terra».
Ma 45 ettari si offrono a sogni anche più grandi, fatti di spazi per passeggiare a piedi o a cavallo, altri per gli animali, altri ancora per il cicloturismo, con la cava a fare da sfondo dove coltivare essenze mediterranee e che potrebbe fungere da luogo estivo per concerti o incontri. «Se questo luogo si dovesse dividere in tante piccole proprietà sarebbe una pena. I diversi proprietari devono sapere stare insieme per tenere questo bene unito e utile per la città e per l’ambiente, perché non credo che la città abbia più altri spazi verdi. Il fatto è che se non tornerà produttivo,
sarà molto difficile resistere alla pressione antropica che c’è tutt’attorno, basta costruire un magazzino e poi farlo diventare un alloggio estivo e poi farci l’appartamentino di sopra che si passa da questa meraviglia al disordine urbanistico delle periferie che già conosciamo».
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