Film su Farmacia, il ricordo di un chimico «Il livello di pericolosità non ci sfiorava»

Con il fiato sospeso o trattenendo il respiro? Il film di Costanza Quatriglio mi ha fatto ripercorrere in flashback gli anni a cavallo i 60 ed i 70, quando da studente e da laureando ho frequentato gli storici laboratori d’analisi dell’Istituto di Chimica dell’università di Palermo, gli stessi che senza aggiornamenti strutturali di rilevanza avevano visto in passato la presenza di illustri scienziati del calibro di Stanislao Cannizzaro. Laboratori splendidi dal punto di vista storico, molto meno da quello dell’adeguatezza alle condizioni di lavoro ed al contatto con le sostanze manipolate sia nei corsi di apprendimento che nelle attività di ricerca.

La chimica ambientale era una sconosciuta, l’incidente dell’Icmesa di Seveso era ancora da venire da lì a parecchi anni, eppure già nel ’68 in noi si era fatta strada la consapevolezza, e da qui le richieste al corpo docente, che quantomeno una buona parte delle ricerche che si svolgevano nei nostri Istituti (di Chimica Generale, di Chimica Fisica e di Chimica Organica) dovessero avere finalità applicative al miglioramento delle condizioni di vita della gente. Il livello di pericolosità o di tossicità delle sostanze che adoperavamo fin dal primo anno di studi non ci sfiorava affatto, del resto eravamo o no chimici? Imparavamo, anzi, a riconoscere gli odori della chimica: l’odore di uova marce dell’idrogeno solforato, quello acuto e pizzicante dell’acido acetico, quelli soffocanti dell’acido cloridrico, dell’acido nitrico, dell’ammoniaca, oppure quelli aromatici, alcuni anche dolciastri, del cloroformio, dell’acetone, dell’acetato d’etile, altri nauseabondi quali il solfuro di carbonio, ecc. Imparavamo che gli idrossidi ci lasciavano le dite saponose e l’acqua ossigenata molto concentrata ci sbiancava completamente la pelle del pollice con cui tappavamo la provetta da agitare nella quale ne avevamo versato piccole quantità. Nei laboratori dei primi tre anni gran parte delle reazioni per l’analisi qualitativa e quantitativa degli elementi da riconoscere avveniva scaldando i contenitori in vetro (becher) nei banconi di lavoro, vale a dire che se si trattava di un corso numeroso potevano esserci anche 40-45 fornelli accesi (becchi Bunsen) contemporaneamente, con vapori liberi nel laboratorio.

Sotto le cappe aspiranti si lavorava poco, sia perchè nel laboratorio più grande ce n‘erano 4, non c’era quindi spazio per tutti e, in ogni caso, il tiraggio era spesso approssimativo. Ma, in fondo, ritenevamo di sapere quello che si faceva, tuttalpiù se l’odore era particolarmente molesto o irritante per le mucose bastava trattenere il respiro, una o più volte per completare la reazione o l’analisi, perché, eravamo chimici o no? Si evitava di lavare spesso il camice, perché dopo ogni lavata spuntava sempre qualche nuovo buco, testimonianza di schizzi inavvertiti acidi o basici, mentre ci si rideva su se si raccontava del distacco persino di parte di una manica. Ovviamente, tutto quello che si era utilizzato negli esperimenti, acidi, basi, solventi eccetera, finiva nello scarico dei lavandini e non faceva eccezione neppure il pulitore-sgrassatore chimico per eccellenza della vetreria, la miscela cromica, vale a dire un soluzione di colore rosso arancio intenso a base di acido solforico concentrato e bicromato di potassio, una vera bomba a cui non resisteva pressoché nulla. Nei laboratori di ricerca c’era lo stesso modus operandi, semmai poteva variare in più l’uso di prodotti organici (benzene, solo per citare il più noto tra i tanti) nel caso dell’Istituto di Chimica Organica o di composti organo-metalli (stagno, rame, nichel, ecc.) nel caso dell’Istituto di Chimica Generale ed Inorganica.

Nei primi anni 70 ci si cominciò ad occupare di inquinamento delle acque. Ma, a ben considerare quegli anni, è evidente il paradosso: molti dei reagenti utilizzati per l’analisi dei campioni d’acqua erano, in realtà, più tossici ed inquinanti (dato che tutto finiva negli scarichi dei lavandini) degli stessi inquinanti ricercati. Fra di essi acido solforico, idrossido di sodio, mercurio, cromo, argento, stagno, vari reagenti organici di cui già si sospettava un’azione cancerogena, la micidiale miscela cromica per pulire la vetreria. Un solo esempio di lavoro: la ricerca della presenza dei tensioattivi anionici (detersivi) prevedeva l’uso, tra i reagenti, di cloroformio. L’unica precauzione per evitare di respirarne i vapori nel corso della sua separazione dalla soluzione acquosa consisteva nel mettersi davanti ad una finestra aperta e nel trattenere il respiro. A fine giornata, dopo un bel po’ di analisi, il mal di testa era una costante e si tornava a casa piuttosto intontiti.

Si potrebbe continuare ancora, ma oltre a questi sprazzi di episodi voglio dire che il film mi ha riportato giocoforza a considerazioni più tristi, cioè al ricordo di quei colleghi, amici, docenti, in verità non pochi, che nel tempo ci hanno lasciato prematuramente, non per limiti di età, ma a causa di patologie tumorali. Nessuno può dimostrare l’eventuale nesso di causalità tra le sostanze con cui per anni loro sono stati a contatto, sia per respirazione che tramite assorbimento epidermico, e per le inadatte condizioni di lavoro. Ognuno è libero di trarre le proprie considerazioni davanti la nuda realtà dei fatti, nella considerazione, tuttavia, che la maggior parte di quelle sostanze sono state riconosciute da tempo nocive, a vari gradi, per la salute umana e che esse sono state manipolate o ad esse ci si è esposti in condizioni lavorative che oggigiorno sono espressamente vietate.

Sorprende che nel corso di laurea in Chimica dell’università di Palermo continui ancora a mancare qualche insegnamento che tratti di questi argomenti o che ve ne sia soltanto uno che affronti le tematiche dell’inquinamento ambientale. Eppure i tempi sono cambiati, la coscienza e la conoscenza per i problemi ambientali, a partire dalla salubrità del posto di lavoro hanno fatto passi da gigante, o non ce ne si è accorti? Costanza Quatriglio, partendo da fatti drammatici che non possono essere circoscritti soltanto a quella sede universitaria, lancia, a mio avviso, un messaggio chiaro e forte: non è più il tempo di stare con il fiato sospeso, ma è il tempo di avere il coraggio della denuncia e della riaffermazione dei propri diritti, ovvero della determinazione di riprendere a respirare liberamente ed a pieni polmoni.

Gioacchino Genchi – Dirigente chimico, Regione Siciliana, Dipartimento Attività Sanitarie e Osservatorio Epidemiologico

[Il post originale è sul sito del film Con il fiato sospeso]

Redazione

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