«Un nemico irriducibile dei mafiosi». Questo era, nella descrizione dei suoi colleghi, Giuseppe Russo. Un peccato troppo grande per potersene andare in giro liberamente senza innescare i piani di vendetta di Cosa nostra. Sembra una sera come le altre, quella del 20 agosto di 42 anni fa. Invece per lui, e non solo, sarà la più diversa. È la sera in cui proprio quella vendetta della mafia deciderà di colpirlo. Passeggia, inconsapevole di quello che gli accadrà di lì a pochi minuti, nella piazza di Ficuzza, una frazione di Corleone. Quando Scarpuzzedda, accompagnato da altri due killer, gli scarica addosso i proiettili che lo uccidono, di fianco a lui c’è anche Filippo Costa, l’amico di sempre.
Muore anche lui sotto quegli stessi colpi, e non per caso. Malgrado non appartenga alle forze dell’ordine ma sia un insegnante, paga lo scotto di aver raccolto le confidenze di Russo e di essere stato lì con lui in quel momento, quella sera. Cosa nostra, si sa, non lascia testimoni. Aveva 57 anni, Russo invece ne aveva 49 ed era tra gli uomini di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Viene ucciso mentre sta indagando sul caso Mattei, ma non solo. Investigatore di razza, per quello che testimonianze e ricostruzioni dell’epoca hanno fino ad oggi restituito, aveva messo il naso anche in un altro affare sporco, sospettando di alcuni imbrogli intorno ai lavori per l’invaso Garcia, la diga tra Roccamena e Poggio Reale. La stessa colpa che costò la vita, due anni prima, al sindacalista e attivista socialista Calogero Morreale, ucciso a 35 anni a Roccamena. Dopo di loro, fu la volta del cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese, nel ’79, che si era occupato anche lui dell’affare della diga.
Un omicidio obbligato, quasi dovuto, da parte di Cosa nostra, per fare fuori quel colonnello scomodo. Tuttavia, mai ufficialmente autorizzato. Quel duplice omicidio del 20 agosto 1977 è l’ennesimo per il quale «né Bontate né la Commissione ne venivano preventivamente informati», come ricostruisce la parte terza della storica sentenza del maxi processo, quella dedicata alla guerra di mafia. «Solo in un secondo momento – si legge più avanti – Michele Greco comunicava a Bontate che i mandanti dell’omicidio erano stati i corleonesi e autore materiale Pino Greco, Scarpuzzedda. Negava però, contro ogni logica, e benché un uomo d’onore della sua famiglia (Pino Greco) avesse partecipato all’assassinio, di essere stato informato prima della consumazione dello stesso». È solo uno dei tanti episodi che prepareranno il terreno a quel sanguinario conflitto che vedrà Cosa nostra spaccata in due.
«Lo ricordo come un grande amico di affettuosità e cordialità – raccontava un anno fa un collega carabiniere, Michelarcangelo Campanozzi, ricordando il colonnello Russo -. L’ultima volta lo incontrai proprio a Ficuzza durante un mio giro di visita alle squadriglie, infatti in quei pressi vi era la sede di una squadriglia». Era la memoria storica di buona parte delle inchieste di mafia degli ultimi vent’anni. In aspettativa per malattia da alcuni mesi, qualcuno aveva messo in giro la voce che volesse lasciare l’arma per fare l’imprenditore. Una voce che ad oggi non trova alcun riscontro e che cozza fortemente con l’immagine che c’è stata restituita di lui, di quell’investigatore di razza che rimane tale per tutta la vita, fuori o dentro una caserma. Oggi, dopo 42 anni da quella sera del ’77, il ricordo dell’arma in quella stessa piazza della borgata dove quella raffica di mitra lo ha ucciso insieme all’amico di una vita.
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