Fiammetta Borsellino ospite da Fazio a Che tempo che fa «Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia»

«È come se durate una partita di calcio a un certo punto i giocatori avessero iniziato a correre dietro a un pallone tirato in campo dall’esterno, diverso per peso e colore da quello regolare, e che la partita sia stata portata a termine seguendo proprio quel pallone. È che solo molto dopo, a giochi ormai chiusi, qualcuno abbia detto che quel pallone non era quello giusto». Una metafora calcistica per dire, in parte, cosa sia stato «il più grande depistaggio della storia del nostro Paese», sempre per citare le carte della sentenza del Borsellino quater. Quello delle indagini sulla strage di via d’Amelio, sul quale pendono le domande da anni rimaste inevase della famiglia del giudice ucciso il 19 luglio 1992. «Non c’è stata mai alcuna restituzione dal Csm e credo che dopo 25 anni passati compromettendo quasi per sempre la possibilità di arrivare alla verità credo che non si possa lasciar passare neanche un giorno», osserva Fiammetta Borsellino, che ieri sera è stata ospite del programma di Rai1 Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio.

Non lasciar passare neanche un giorno senza ripetere e riproporre le domande ancora senza risposta. Che sono tante, e tutte raccolte nei mesi scorsi anche dalla Commissione regionale antimafia e dal suo presidente, Claudio Fava, che attraverso colloqui con chi, in fasi diverse, è stato protagonista di queste indagini, ha riproposto le domande di Fiammetta. Perché la collaborazione fra magistratura e Servizi segreti? Una connubio vietato per legge. Perché a nessuno sembrò strano, nessuno disse mai niente? Perché fra chi indagava sulla strage, in molti non avevano alcuna esperienza di criminalità organizzata palermitana? Perché nessuno sapeva delle busta paga di Arnaldo La Barbera pagate dal Sisde? Perché insistere sulla via di Vincenzo Scarantino, il ragazzo della Guadagna vestito come un mafioso, che venne tenacemente creduto da magistrati e inquirenti malgrado le sue continue ritrattazioni, malgrado la sua credibilità sin da subito vacillante. E i verbali mancanti, i confronti con quei mafiosi che lo smentivano mai depositati, le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008. «Una grossissima mole di anomalie e di omissioni che hanno caratterizzato le indagini ma anche i processi – sottolinea la figlia più piccola di Paolo Borsellino -. A mio padre stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici, eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute».

«Né io né tutta la mia famiglia pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene – spiega -. Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Una circospezione, quasi, la sua, resa pubblica ormai da quasi due anni. Da quando, in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’92 ha deciso di rompere il suo silenzio, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». «Per me quello oltre che un momento di ricordo fu un momento di bilanci – racconta -. Momento che ad aprile 2017 era stato amarissimo con la sentenza a conclusione del quarto processo su via d’Amelio che ne svelava il grande inganno. Una storia di orrore e menzogne, di un depistaggio iniziato immediatamente dopo la strage e che si contraddistingue per la sua grossolanità, che offende la mia famiglia e l’intero popolo italiano. Un processo, tuttavia, di cui sin dall’inizio non si è voluto parlare, passando a una sorta di rimozione collettiva».

A immortalare il ricordo di quelle tremende stragi 25 anni dopo una diretta della Rai, condotta proprio da Fazio, da quella stessa via d’Amelio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo». Non c’è ombra di rassegnazione, però, nelle sue parole. Quella rimozione collettiva, anzi, è forse una delle cose che oggi la spinge a portare avanti le sue domande, la sua rabbia. «Le mie figlie spesso costituiscono una palestra, attraverso le loro domande puntuali e precise io mi alleno a usare il linguaggio che poi uso coi ragazzi nelle scuole – rivela -. Al di là di tutto, credo che la giustizia in sé non sia un giudizio eterno e incontrovertibile, ma un equilibrio di molteplici poteri e verità. Ma una verità non è davvero sensata se non può essere spiegata a una bambina di otto anni».

Non c’è solo la sua famiglia che la spinge avanti, in un percorso necessariamente doloroso. Ma anche un percorso intimo e personale, che negli anni l’ha portata a incontrare alcuni detenuti in carcere. Un percorso che, però, a tratti sembra quasi qualcuno voglia tenere a freno, soprattutto quando la richiesta diventa quella di poter incontrare in carcere i fratelli Graviano, richiesta ad oggi disattesa. «Il motore principale di questo incontro coi detenuti viene dalla necessità di dare voce a un dolore profondo inflitto non solo alla nostra famiglia ma alla società intera – spiega -. È stato un viaggio complesso nell’inferno dei silenzi, dei cancelli, però è stato anche un viaggio di speranza. Il sentimento prevalente infatti non è stata la rabbia, non il rancore, ma tanta tristezza e tanto dolore per chi ancora non riesce a fare quel passo in più, quello che riesce a dare dignità a una persona. La dignità che, per chi ha fatto un torto, viene dando un contributo di onestà, non stando chiuso e muto nelle patrie galere. In questo senso interpreto la collaborazione di un mafioso: penso che certe cose si debbano fare senza sé e senza ma».

Silvia Buffa

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