Etna, torna l’incubo della processionaria dei pini «Serve intervenire in autunno, quando nidificano»

Ormai siamo quasi abituati alla loro presenza, data l’enorme diffusione in tutto il territorio etneo. Eppure la minaccia è grave e il fenomeno è sempre più in crescita, anche se spesso sottovalutato. Stiamo parlando della Traumatocampa (=Thaumetopoea) pityocampa meglio conosciuta come processionaria dei pini. Si tratta di un insetto dell’ordine dei lepidotteri appartenente alla famiglia Notodontidae e diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. Il suo aspetto giovanile assomiglia a quello di un grosso bruco peloso ed è riconoscibile per il particolare modo di incedere in fila indiana, formando insieme agli altri individui della stessa specie lunghe catene (come, appunto, una processione). Al di là delle innocue apparenze questo insetto è seriamente pericoloso per la salute dell’uomo, oltre che essere responsabile della defogliazione di parte delle pinete etnee e, negli ultimi anni, anche di quelle madonite. 

Non passano di certo inosservati, infatti, i numerosissimi bozzoli bianchi che addobbano a partire dal periodo autunnale i rami dei pini dei boschi e delle aree verdi urbane e periurbane. Al loro interno si trovano dalle 100 alle 300 larve derivanti da uova deposte in estate dalla femmina. Dopo la schiusa delle uova (che avviene ad appena un mese dalla deposizione) le larve della processionaria cominciano a nutrirsi voracemente degli aghi di pino che si trovano sul ramo, per passare al successivo e a quello dopo ancora. Con l’arrivo delle temperature primaverili le larve lasciano il nido scendendo lungo il tronco dell’albero e marciano in gruppi da 50 a 90 individui alla ricerca di un posto adatto per interrarsi. Sottoterra, tra luglio e agosto, avviene la metamorfosi che trasforma le larve in farfalle distinguibili per una macchia nerastra sulle ali posteriori. Prima di morire, gli individui adulti hanno circa 2-3 giorni di tempo per trovare i rami di pino più ricchi di aghi, accoppiarsi e deporre le uova, dando vita a un altro ciclo biologico. Nonostante possa sembrare il contrario, il danno agli alberi è limitato: i pini infatti rallentano il proprio accrescimento ma non muoiono. Il problema reale, invece, interessa i fruitori delle zone colpite dalla presenza del lepidottero.

Monte Gemmellaro, Schiena dell’Asino, Monte Scavo, Piano Vetore, Monte Intraleo, Piano Fiera e diversi tratti della pista altomontana sono solo alcune delle aree etnee letteralmente infestate dalla processionaria, zone in cui una semplice gita potrebbe concludersi con una corsa all’ospedale. I rischi sono molteplici: basta infatti anche solo sedersi o sdraiarsi a terra per rischiare il contatto con i pericolosissimi peli urticanti dell’insetto che potrebbe aver transitato da lì prima del nostro arrivo; il vento è un altro fattore da tenere in considerazione, se si pensa che i peli urticanti possono facilmente essere mobilitati e trasportati in aria. In caso di contatto, nell’uomo si verificano forti irritazioni cutanee e violente dermatiti che, in soggetti allergici, possono sfociare in veri e propri shock anafilattici. Ben peggiori le conseguenze per i nostri amici a quattro zampe che, se dovessero arrivare a odorare o leccare le larve, rischierebbero la necrosi della lingua e il soffocamento.

Ma se il pericolo è così grave, perché nessuno prende provvedimenti? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe, innanzitutto, individuare a chi spetta affrontare il problema. Il Parco dell’Etna, molte volte ritenuto responsabile dall’opinione pubblica di non essersi occupato della faccenda, in realtà, non è più da diverso tempo investito di alcuna responsabilità. «Nel corso degli anni, abbiamo attuato diverse misure per il contenimento biologico delle popolazioni di processionaria, in collaborazione con altri enti tra cui la Forestale e l’università di Catania, ma dal 1998 la competenza è passata ad altre strutture»spiega la dottoressa Rosa Spampinato, dirigente tecnico agrario del Parco dell’Etna. Negli anni successivi (2004-2007) il Parco ha comunque continuato a finanziare sia le attività di monitoraggio dell’università sia la realizzazione dei cartelli informativi posizionati nelle aree più a rischio, cartelli che però sono stati rubati o divelti.

«Non è pensabile riuscire ad eliminarla radicalmente perché stiamo parlando di numeri elevatissimi di larve ad altezze spesso difficilmente accessibili. Inoltre, l’aumento delle temperature medie invernali che si registra da qualche anno fa aumentare le possibilità di sopravvivenza del lepidottero; inoltre, la non esecuzione costante degli interventi di contenimento sta facilitando la diffusione dell’insetto in aree fino a poco tempo fa indenni», spiega il dottor Agatino Sidoti, dirigente del Dipartimento dello Sviluppo rurale e Territoriale dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura e responsabile fino al 2016 di un ufficio regionale che si occupava tra l’altro della difesa dei boschi dagli insetti e dalle malattie. 

«Una questione da affrontare, per esempio, riguarda la tempistica delle azioni di intervento che dovrebbero essere avviate in corrispondenza dell’inizio della formazione dei nidi, quindi soprattutto nel periodo autunno-invernale, quando però può capitare che i fondi che a inizio anno vengono stanziati nel capitolo di bilancio che prevede anche la difesa dei boschi sono già esauriti oppure un anticipo della stagione invernale renda impraticabili le pinete d’alta quota per le abbondanti nevicate», conclude il tecnico.

Nel frattempo, il rischio si fa sempre più concreto anche negli spazi verdi delle aree urbane della città e dei paesi etnei. Proprio per questo motivo nel 2007 il ministero della Salute, insieme a quello per le Politiche agricole, ha rinnovato il decreto di lotta obbligatoria secondo il quale dovrebbero essere le singole amministrazioni regionali o comunali (nel caso di aree pubbliche) o i cittadini (se si tratta di aree private) a farsi carico del problema e dei relativi costi.

Michela Costa

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