«Manca la cultura della montagna e ci sono invece funzionari pubblici che fanno a gara per liberarsi delle responsabilità». Così Giuseppe Riggio, giornalista e coordinatore delle escursioni dell’associazione Etnaviva, commenta le alterne ordinanze di chiusura della zona sommitale del vulcano etneo, sopra i tremila metri d’altezza e anche più in basso in caso di attività eruttiva come in questi giorni. Sempre sulla base di un documento della Protezione civile regionale del 2013 – e della pericolosità del vulcano, ritenuta significativa e costante – che non trova d’accordo le associazioni. Anche le tre – Etnaviva, Cai e Piuma bianca – che hanno partecipato all’ultima riunione con il prefetto etneo Maria Guia Federico.
«Si continua a utilizzare la parola divieto che è un vocabolo improprio perché viviamo in un Paese democratico, con tante libertà», riassume i motivi dell’opposizione al documento Giambattista Condorelli del Club alpino italiano Catania. «Non si può vietare a qualcuno di andare dove vuole, semmai si possono diramare degli avvisi di attenzione, anche di massima attenzione». Un paradosso, secondo i volontari, che si fa ancora più evidente leggendo le categorie escluse dal divieto: forze dell’ordine, studiosi, guide, soci riconosciuti Cai e giornalisti. «Persone che quindi possono morire oppure sono più veloci a scappare», ironizza Sergio Mangiameli, presidente dell’associazione Piuma bianca e blogger di CTzen. Un problema che nel 2003 l’allora prefetto Alberto Di Pace aveva risolto applicando una legge regionale e affidando al Parco dell’Etna la responsabilità di redigere un regolamento per la fruizione della montagna.
«La popolazione delle Dolomiti, nonostante i numerosi crolli, le migliaia di visitatori e gli incidenti, non si sognerebbe mai di affidarle alla Protezione civile, ma anzi si fa un vanto della sua proprietà». Secondo una ricerca condotta dal Cai Catania, in 500 anni, le vittime sull’Etna sono state cento e 37 i feriti. Una novantina sono stati gli incidenti dovuti al vulcano. «Un numero infinitamente minore alle vittime dei pirati della strada o di chi non porta il casco in moto», fa notare Condorelli. «In paragone, è come se il prossimo inverno si vietasse l’accesso al lungomare di Catania alla prossima mareggiata», gli fa eco Mangiameli. L’attività del dipartimento regionale di Protezione civile nella fruizione dell’Etna non trova quindi riscontro in altre parti d’Italia. «Perché tra i rischi stabiliti a livello nazionale c’è quello vulcanico ma non il rischio valanghe. Il vulcano noi lo abbiamo e sulle Alpi no», spiega Mangiameli.
«Credo che, dopo il caso del terremoto dell’Aquila e i processi che hanno coinvolto anche la Protezione civile, ci sia una volontà di allontanare le responsabilità», dice invece Condorelli. E di responsabilità di cui liberarsi parla anche Riggio. Che rilancia: «Nel 1952 il Cai chiese sentieri, rifugi e informazioni. Ancora aspettiamo tutt’e tre le cose». «Di certo servirebbero dei pannelli elettronici, aggiornati con le informazioni in tempo reale dell’Ingv, sulle strade di avvicinamento alla montagna», aggiunge Condorelli. «E il consiglio, ma non l’obbligo, di rivolgersi alle guide alpine in caso di certi livelli di allarme», continua Mangiameli. Richieste formulate per la collettività, nonostante tutti e tre i volontari rientrino nelle categorie a cui non si applica il divieto. «Perché quello dell’Etna è il primo spettacolo del mondo, dove si genera la terra – spiega Mangiameli – I ragazzi di oggi non sentono più il suono di avanzata del fronte lavico, che peraltro è uguale al passo di un uomo, così cresciamo la classe dirigente del futuro umanamente monca, che non conosce il proprio territorio e le necessità della sua gente». «Mio padre è vissuto durante il ventennio fascista – conclude Condorelli – Non aveva tante libertà ma, quando voleva, poteva andare sul cratere centrale. Liberamente».
[Foto di Etnaviva]
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