«Vietare l’accesso alla zona sommitale dell’Etna? È come se vietassimo alla gente di passare sotto ai balconi perché può cadere loro un vaso sulla testa». Non ha mezzi termini Carmelo Ferlito, docente di Vulcanologia al dipartimento di Scienze Biologiche, geologiche e ambientali dell’università di Catania e grande amante della montagna. A cominciare dal documento elaborato dalla Protezione civile regionale nel 2013 e continuando con le ordinanze prefettizie di chiusura e parziale riapertura della zona sommitale del vulcano, per lo studioso si tratta «non solo di scienza ma, prima di tutto, di un divieto allo sviluppo spirituale dei siciliani, per i quali la montagna è un punto di riferimento, e ha un effetto negativo sulla crescita dei giovani, oggi per lo più impauriti da tutto».
Il docente non nega i rischi, gli stessi che – secondo le istituzioni – giustificano il ruolo della Protezione civile nella gestione della fruizione dell’Etna. «Che è un vulcano e pertanto presenta dei pericoli che non si possono eliminare del tutto, ma eventualmente ridurre con un comportamento adeguato da parte di chi ci va: stare poco tempo, in pochi e in maniera distribuita», spiega Ferlito. Rischi e pericolosità che restano imprevedibili, sottolinea il professore, «nonostante l’Etna sia uno dei vulcani più monitorati al mondo». Ma il punto di partenza, per il docente, è la definizione di pericolo. «Finora la storia ci ha insegnato che tutte le attività eruttive dell’Etna non hanno mai provocato vittime tra gli abitanti perché le colate sono estremamente lente – spiega – Da escursionista invece qualche pericolo c’è».
Le difficoltà tipiche della montagna – perturbazioni, escursione termica, terreno difficoltoso -, «le stesse che provocano centinaia di morti all’anno, e non è un numero a caso, in tutto l’arco alpino – continua – E tuttavia a nessuno viene in mente di chiudere l’accesso». A queste si aggiungono i pericoli di un vulcano, come l’attività esplosiva: non solo quella di magma, «meno pericolosa perché ben visibile», ma le esplosioni di blocchi di pietra – come nel ’79, quando provocò nove morti e una ventina feriti tra un centinaio di turisti -, oppure la recente frana nella valle del Bove che ha portato alla chiusura dell’area, a febbraio. «Due fenomeni comunque rari», chiarisce il docente.
Nulla in confronto alla posta in gioco: raggiungere la montagna. «Un pezzo della nostra vita – commenta Ferlito – Ci stanno impedendo una libertà enorme. Se da ragazzo non avessi avuto la possibilità di salire, nella mia vita non avrei fatto tante scelte e non sarei quello che sono oggi». Una possibilità che oggi viene negata a tanti giovani, se non accompagnati da una guida riconosciuta nelle loro gite sopra i tremila metri d’altezza. «In dieci anni di insegnamento ho avuto circa 500 ragazzi – racconta il docente – Ogni anno, a inizio corso, chiedo chi è mai stato al cratere centrale e ad alzare la mano finora saranno stati 15 in tutto. Quando studiavo io, invece, era un tappa obbligatoria per tutti, non solo per gli studenti di geologia». Non a caso, oggi, a frequentare le zone meno battute ma più interessanti dell’Etna sono per lo più gli stranieri, grandi e piccini. «Perché questo clima di pericolo incombente ha creato un senso di pavidità nei ragazzi, una paura che si riversa in tutti i campi della vita», commenta il professore.
Benevolo con chi prova la scalata, anche senza i mezzi necessari. «Questa storia delle gente che parte per l’Etna in infradito e teli mare è una retorica stupida – sbotta – È vero, ci sono, ma peggio per loro, rimangono bloccati a valle e la prossima volta saliranno con gli scarponi. Chi siamo noi per giudicare e togliere loro questo diritto?». Un ruolo impossibile così come impossibile è ogni tentativo di mettere in sicurezza la montagna stessa. «Quello delle società sicure al cento per cento che scaricano la responsabilità su un sistema esterno è un modello che si sta sviluppando velocemente in Occidente – conclude Carmelo Ferlito – Ma può andare bene in un cantiere o in un laboratorio, costruiti dall’uomo con regole umane. La natura, invece, è impossibile da controllare».
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