Elezioni in Sicilia, chi ha paura dei partiti? Tra simboli deboli e marchi in franchising

Dei veri e propri «sistemi di franchising», che hanno creato un «mutuo accordo di scambio tra l’apparato locale che non mette in discussione la leadership nazionale e quest’ultima che a sua volta non dibatte sull’adattamento locale del marchio nazionale». Nello scollamento generale dai partiti tradizionali, il politologo Giancarlo Minaldi, docente di Scienza Politica all’Unikore di Enna, individua ragioni più profonde. Su questo e molto altro lo studioso ha condotto diverse ricerche, l’ultima delle quali, ancora in corso, guarda proprio alla «logica del sotto-franchising». Un argomento più che mai attuale in vista delle amministrative siciliane di giugno che, specie a Palermo, hanno riservato colpi di scena; ma anche andando con lo sguardo alle prossime elezioni regionali, il cui scenario non appare meno confuso agli elettori.

Professor Minaldi, quali sono, a suo avviso, le ragioni dietro questa caccia al simbolo (e al partito) nelle amministrative di Palermo?
«Le ragioni sono molte e abbastanza complesse, ma certamente bisogna distinguere tra contesto locale e processo generale. Partendo dal caso specifico, c’è un tentativo di camuffamento dei partiti, con candidati sindaci che hanno provato a dare un profilo civico al loro percorso elettorale. Non riuscendoci nel caso di Fabrizio Ferrandelli, riuscendoci invece nel caso di Leoluca Orlando».

Si ha paura, insomma, dei partiti?
«Non sarei così categorico sul fenomeno, bisogna distinguere. Il Pd a Palermo è un partito debole e proviene da una storia altrettanto debole. Non dimentichiamo che negli anni ’90 l’allora Pds accettò, sempre su richiesta di Orlando, di partecipare alla campagna elettorale per ben due volte con una lista civica, prima con Insieme per Palermo e poi con Ricostruire Palermo. Questo, evidentemente, denota la storica debolezza del Pci palermitano prima, e poi del Pds, fino al Pd. Tant’è vero che alle ultime amministrative il Partito democratico è uscito sconfitto con un risultato imbarazzante».

Pensa che sia così anche sul piano regionale?
«Nel caso del Pd senz’altro; mentre, ad esempio, nel caso di Forza Italia e soprattutto del Movimento 5 stelle il marchio conta tantissimo. Tant’è vero che Ferrandelli, seguendo Orlando sul profilo civico, trova il no dei forzisti. Non perché Fi tenga al suo simbolo, ma perché è consapevole che il simbolo può attirare una fetta di elettorato che si richiama ad antichi fasti».

E i Cinque Stelle, invece?
«Nel caso dei Cinque Stelle il candidato è debole: finora non ha connotato la sua campagna elettorale, non è riuscito a darsi un profilo autonomo rispetto a Orlando, non lo attacca o perlomeno mi sono sfuggiti i suoi attacchi. Il suo traino è il marchio. Peraltro a Orlando conviene davvero poco avere il simbolo del Pd. Anche lì, si profila una situazione imbarazzante per i dem, che in questi anni hanno molto criticato l’amministrazione dell’attuale sindaco. Tranne l’area che fa riferimento a Lupo, che al contrario ha una antica interlocuzione col primo cittadino uscente. Poi Orlando ci mette del suo, storicamente è bravissimo a dividere i partiti già deboli».

In questo panorama, sembra che quella dei Cinque Stelle sia l’identità partitica più forte, più radicata nell’elettorato. Come se il Movimento, da anti-partito, fosse diventato più partito dei partiti.
«Esatto, il M5s cavalca la sfiducia degli italiani nei partiti tradizionali, ma in questo momento è di fatto il partito più forte in Italia. Quello che nel 2013 era un voto di opinione, oggi è anche voto d’appartenenza. Quanti elettori che non voterebbero mai Ugo Forello voteranno Cinque Stelle? In un modo diverso, anche Diego Cammarata è stato un candidato debole nel 2007, ma con una estesa coalizione alle spalle fondata sulla mobilitazione individualistica del consenso che ne ha trainato la rielezione. La reintroduzione dell’effetto trascinamento votata dall’Ars la scorsa estate puntava proprio a contenere le candidature sganciate dai partiti e dalle liste, ma paradossalmente a Palermo rischia di avvantaggiare il candidato del M5s, che potrebbe usufruire del trascinamento di un marchio vincente».

Più volte lei ha fatto riferimento ai simboli di gruppi politici parlando di marchio. Perché?
«Da qualche anno la scienza politica registra una trasformazione ulteriore dei partiti, non soltanto in Italia, e se vogliamo rientra nel segno di debolezza generale. È come se si trattasse di sistemi franchising. La faccio breve: si registra un distacco ulteriore tra la leadership e la classe dirigente, da una parte, e il partito-apparato periferico, nei territori, dall’altra. Il partito periferico gode di grande autonomia, basti vedere il caso delle firme false, in cui il Movimento 5 stelle è scivolato sulla classica buccia di banana. Quella è una vicenda sicuramente cavalcata dal Pd, poi è emerso il ruolo di Nuti, addirittura la sua denuncia a Forello… tutto questo ci descrive un partito a livello locale autonomo, frammentato, diviso. Un partito poco coordinato dal centro e un processo di adattamento del marchio, declinato in maniera differente a livello locale».

Perché avviene tutto questo?
«Perché i partiti contemporanei tendono a separare la leadership nazionale dall’apparato, c’è un mutuo accordo di scambio, l’apparato non mette in discussione la leadership nazionale e la leadership nazionale non mette in discussione l’adattamento dell’apparato locale».

In un’intervista a Totò Cuffaro pubblicata su Repubblica, l’ex governatore sponsorizza la candidatura di Roberto Lagalla, auspicando una coalizione trasversale, da Forza Italia, fino al Pd. Si replica lo schema già visto a Palermo?
«Cuffaro prefigura uno scenario di unione delle forze, anche alla luce del sistema elettorale regionale che non prevede il ballottaggio. Ma nel centrosinistra in molti non vedono bene Lagalla e poi ci sono anche altri appetiti nel centrodestra. Nella Sicilia orientale, poi, quale può essere l’appeal di Lagalla? Il punto è che Cuffaro pone un argomento forte: sia alla luce dei sondaggi che sulla base del profilo che il gruppo parlamentare è riuscito a darsi, il M5s è il nemico da battere. È una buona argomentazione quella di una candidatura unitaria, ma può essere anche un grande boomerang».

Miriam Di Peri

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