Ecomafie, un sistema brevettato per vincere appalti «Scelgo il ribasso e poi recuperiamo in cinque anni»

Una torta che vale circa miliardo di euro ogni anno, soltanto in Sicilia, e sulla quale la mafia ha messo gli occhi da tempo. L’affare dei rifiuti fa gola alle cosche che si sono organizzate al meglio per entrare nel business. Boss e imprenditori collusi si muovono a loro agio tra interdittive, gare d’appalto e ribassi riuscendo a ottenere fatturati enormi in poco tempo. Tra i colletti bianchi sospettati di essere inseriti nelle dinamiche delle cosiddette ecomafie c’è il catanese Giuseppe Guglielmino, accusato dagli inquirenti di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. L’uomo, arrestato nelle scorse settimane nel blitz Penelope contro il clan Cappello, avrebbe operato «dietro le quinte» di alcune realtà del settore, controllando di fatto le ditte Clean Up, Geo Ambiente ed Eco Businness. Aziende capaci, solo negli ultimi anni, di vincere gare per la raccolta dei rifiuti in buona parte della Sicilia, e in decine di Comuni calabresi. Come? Attraverso quello che i magistrati definiscono un «sistema brevettato».

Se vogliamo entrare dobbiamo perdere e poi recuperiamo in cinque anni

Il metodo viene spiegato dallo stesso Guglielmino, durante un’intercettazione telefonica del 2013. Il periodo è quello in cui l’imprenditore tenta di vincere l’appalto per l’immondizia a Marcianise, provincia di Caserta: «Il ribasso l’ho scelto io – spiega al suo interlocutore – Se vogliamo entrare dobbiamo perdere e poi recuperiamo in cinque anni. Gli abbiamo fatto l’otto per cento mentre gli altri fanno l’uno, il due massimo». L’uomo sembra districarsi, senza problemi, tra i costi e gli ingranaggi della pubblica amministrazione, considerando tra le uscite anche quella del pizzo: «Io ho appoggi a Napoli, 30mila euro pagavano solo di estorsione in un anno sono 400mila euro risparmiati, in cinque anni due milioni». Dalla Campania, passando per la Calabria, fino alla Sicilia – come sottolineano i magistrati nell’ordinanza di custodia cautelare – il modus operandi sarebbe sempre lo stesso: «L’uomo praticava fortissimi ribassi con l’ammontare che veniva recuperato grazie al fatto di non pagare il pizzo mensile in virtù della sua appartenenza mafiosa». Quota che invece per gli altri competitor rappresentava, sempre facendosi guidare dal linguaggio dei magistrati etnei, «un costo occulto».

Per quanto riguarda la Sicilia orientale, grazie alla sua presunta affiliazione, l’imprenditore negli anni sarebbe riuscito a ottenere la gestione del servizio di raccolta nel Comune di Giarre, all’interno di un sistema di proroghe che anticipa la gara settennale. Nello scacchiere è finito anche Riposto, con l’affidamento dal 2013 al 2016, in un’associazione temporanea d’impresa con la Tech Servizi, che però non risulta coinvolta nell’inchiesta della procura di Catania. Le caselle degli enti in cui Guglielmino ha lavorato annovera pure Motta Sant’AnastasiaViagrande, Aci Catena e Aci Sant’Antonio. E nell’area ionica quelli di Fiumefreddo di Sicilia, Santa Venerina e Palagonia

C’è poi la Calabria, dove Guglielmino avrebbe lavorato in società con Salvatore Aiello, coinvolto in alcune inchieste e oggi accusatore dell’imprenditore. È lui a spiegare il cosiddetto «accordo con le Calabrie», che avrebbe consentito alla Geo Ambiente «di non pagare il pizzo in quella regione in virtù della sua appartenenza mafiosa» e all’intercessione di Maria Campagna, moglie del capomafia Turi Cappello, che avrebbe speso il nome del suo primo marito di origini calabresi. «Nel 2010 sono entrato in un paese solo – racconta Guglielmino in una chiamata intercettata – e appena sono entrato ho preso tutta la Calabria». Geo Ambiente lavorava, per esempio a Siderno, LocriBelvedere Marittimo e San Nicola Arcella. Ma gli affari nella terra della ‘ndrangheta non sono sempre filati lisci, come racconta lo stesso Guglielmino in un intercettazione. «Ormai è tassa fissa – spiega – vogliono il tre per cento e ti fanno i finanziamenti in tre tranche, Natale, Pasqua e Capodanno». 

A delineare i suoi i rapporti con la cosca mafiosa dei Cappello sono stati diversi collaboratori di giustizia, tra cui Vincenzo Pettinati. Secondo il pentito sarebbe stato il padre di Guglielmino il primo ad avvicinarsi ai Cappello: «Gli interessava a Giovanni Colombrita (boss recluso al 41bis, ndr) perché ogni volta che vincono una gara d’appalto gli mandano 20mila euro, altrimenti 3500 euro al mese». Tra i soci, per il pentito Ignazio Barbagallo, ci sarebbe stato anche l’ex reggente Orazio Pardo. Tesi che lo stesso Barbagallo ha raccontato ai magistrati di Catania. Ma tra i motivi che hanno consentito all’arrestato di farsi un nome nel clan ci sarebbe stata anche una relazione sentimentale proprio con la figlia di Pardo.

In alcune conversazioni, captate dalle cimici degli investigatori all’interno dell’automobile di Guglielmino, quest’ultimo, parlando con Massimiliano Salvo afferma chiaramente di appartenere alla famiglia Cappello e di non volere sottostare, proprio per questo motivo, al pagamento di cifre mensili legate alle estorsioni per l’aggiudicazione di lavori fuori dal territorio di Catania. Ma, semmai, a dei «regali una tantum». Sintomatico dell’approccio mafioso dell’uomo d’affari – sostengono infine i pubblici ministeri – è anche lo stralcio di un’altra intercettazione dove l’indagato, a proposito di una riunione tenuta per risolvere una questione di soldi, afferma di essere «malandrino» di un certo spessore. «Ci rissi – spiega Guglielmino raccontando il dialogo avuto con il suo interlocutore durante il meeting – ascolta, non te lo fare acchianare il sangue alla testa Marco, perché i malandrini, ci rissi, siamo quattro. Qua non c’è che tu mi butti fuori a me, se c’è l’amicizia… Se poi ci vuoi fare guerra, pensi che tu arrivi a ogni punto? Soldi non ne prendi».

Mattia S. Gangi

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