Il suo revamping (rinnovamento) rientra tra le opere strategiche finanziate dal governo regionale – con risorse del Fondo di sviluppo e coesione (Fsc) – per alleviare l’emergenza idrica che colpisce la Sicilia. Ma sul dissalatore di Gela pesano più i dubbi che le certezze. L’impianto all’interno dell’area della Bioraffineria Eni è fermo da dodici anni. Di recente la protezione civile regionale ha autorizzato ispezioni subacquee per verificare le condotte di diversi dissalatori, tra cui quello di Gela, con un budget di circa 70mila euro affidato a una società agrigentina. Fino a oggi, però, sono stati effettuati solo sopralluoghi preliminari. Proprio il dissalatore di Gela è uno dei tre che la Regione vorrebbe riportare in funzione, ma il progetto solleva non pochi dubbi. Tecnici ed esperti esprimono perplessità, temendo che l’impianto non possa riprendere l’attività in tempi brevi. Noi la struttura, o quel che ne resta, l’abbiamo visitata e lo scenario è desolante: erbacce e ruggine hanno invaso la struttura, abbandonata dal 2012.
Realizzato nel 2006 come impianto d’avanguardia, il dissalatore di Gela entrò in funzione solo per sei anni, prima di essere dismesso. La sua chiusura fu il risultato di una disputa economica tra la Regione siciliana ed Eni, complicata da un procedimento giudiziario che coinvolse Pietro Di Vincenzo, ex presidente di Confindustria, la cui impresa aveva in gestione l’impianto. Lo scontro tra Di Vincenzo e Rosario Crocetta, allora presidente della Regione, fece precipitare la situazione, aggravata dai debiti che la Regione aveva accumulato con Eni per la gestione e la fornitura dell’acqua dissalata. Debiti che la Regione paga tuttora, con una rata annuale da dieci milioni e mezzo di euro da versare alla società che rilevò il debito da Eni. Un mutuo da 105 milioni acceso nel 2016 e che si estinguerà nel 2026. A pagare le spese della chiusura repentina dell’impianto furono soprattutto i dieci operai che lavoravano al suo interno.
Inutili furono le promesse di riassunzione e i lunghi giorni di protesta davanti alla sede della Regione. Per gli operai fu un duro colpo, una battaglia persa contro un sistema che sembrava non volerli più. Adesso c’è chi gestisce un negozio, chi è diventato impiegato statale, chi invece è tornato fare l’operaio, costringendo la famiglia a emigrare. In comune hanno l’esperienza lavorativa all’interno del quinto modulo bis del dissalatore di Gela, dove hanno prestato servizio fino al novembre del 2012, licenziati dall’oggi al domani perché l’impianto non serviva più. Oggi, a distanza di 14 anni, l’impianto che faceva parte delle loro vite non è che un ammasso di lamiere arrugginite. Un impianto fantasma che però la Regione vuole riportare in vita, nonostante le difficoltà che il progetto comporta. Un’ambizione che sembra sempre più un’impresa titanica.
Come un gigante d’acciaio caduto in disgrazia, erbacce e ruggine si sono impossessate del sesto modulo di uno dei più grandi impianti di dissalazione d’Italia, divorandolo lentamente. Un tempo simbolo di progresso e speranza, oggi questo scheletro metallico giace dimenticato. Non è rimasto più nulla, dai tubi che pompavano acqua di mare alla grande sala di controllo. Negli anni, tra l’altro, Eni ha dismesso tutte le infrastrutture necessarie al funzionamento dell’impianto, dalla fornitura elettrica alle condutture per l’acqua di mare. E anche se il colosso industriale è pronto a dialogare con la Regione per ristabilire i servizi necessari, tempi e costi continuano a lievitare. La costruzione di un nuovo impianto potrebbe essere la soluzione più rapida, ma lascerebbe irrisolti i problemi della Piana di Gela, una zona nella quale le condutture sono a pezzi e le riserve d’acqua quasi esaurite.
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