«Rivedere la modalità diagnostica della dislessia e differenziare i bambini che hanno una difficoltà di apprendimento da quelli con un disturbo di origine neurobiologica. Se si facesse così vivremmo meglio tutti, ma fondamentalmente vivrebbero meglio i bambini». Due punti chiari quelli espressi da Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva e direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), riflettendo sulle grande diffusione di diagnosi di dislessia che si registra nel nostro Paese.
Perché così tanti bambini vengono indicati come dislessici? «Inizialmente si è pensato di fare le diagnosi sulla base della manifestazione sintomatica – spiega il direttore dell’IdO – quindi se un bambino tarda nel leggere, ha difficoltà o fa degli errori, ciò automaticamente lo porta a questo tipo di diagnosi. Ma difficoltà di apprendimento non significa che ci siano disturbi specifici dell’apprendimento, come le dislessie».
A riprova di quanto il criterio della diagnosi sia discutibile, Castelbianco cita una ricerca condotta dall’IdO in 12 scuole su 1.200 bambini di prima elementare. L’obiettivo era verificare l’incidenza dei disturbi specifici dell’apprendimento nei bambini che erano andati in prima elementare dopo aver frequentato i tre anni della scuola materna e negli anticipatari, ossia i piccoli iscritti a cinque anni. Il risultato? «Nel primo gruppo di bambini gli insegnanti ci segnalarono circa il 4 per cento di soggetti a rischio, nel secondo il 14 per cento. Gli errori li facevano entrambi – ricorda lo psicoterapeuta – ma nel caso degli anticipatari la causa che portava i bambini a non rispondere alle richieste che gli venivano effettuate era nell’immaturità e non il disturbo d’apprendimento su base neurologica, fermo restando la capacità intellettiva».
Dunque, per Castelbianco, è «questa incapacità di rispondere che portava a una sequela di errori». E poi «non dimentichiamoci che già in prima elementare c’è una corsa alla competenza e alla prestazione che porta solo danni ai bambini che necessitano di più tempo», conclude lo psicoterapeuta.
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