Dentro il Palaspedini dopo la fuga dei siriani La vita dei migranti negli oggetti smarriti

Sul cassonetto giallo usato come scala per scavalcare il muro perimetrale del Palaspedini che dà su via Ferrante Aporti, c’è una casetta giocattolo con i piccoli mattoni multicolori delle costruzioni. Nour voleva portarla via con sé. Negli attimi concitati della fuga di domenica pomeriggio, la teneva forte sotto il braccio. La mano stretta in quella della madre. Attorno a lei circa 250 persone: uomini, donne, minori, bambini come lei. Una prima volta – nel tratto lungo qualche centinaio di metri che separa la porta laterale dell’impianto sportivo, da cui i migranti sono evasi, dal cancello che si affaccia sulla città – la casetta con le costruzioni cade a terra. Nour lascia la stretta della mamma per tornare indietro e raccoglierla. Arriva fin sotto il perimetro esterno della struttura, dove qualcuno è già riuscito a sfondare un grande cancello blu. Resta solo l’ultimo muro, alto circa tre metri. I cassonetti accostati alla parete. Nour si lascia andare, la casetta piena di mattoncini colorati, donata dalla protezione civile, rimane lì. Si fugge leggeri. Non c’è posto per zavorre. Quelle rimangono sul terreno: una lunga scia di oggetti, testimoni silenziosi di una settimana di detenzione. Sparsi ai piedi della ringhiera perimetrale, concentrati davanti ai due cancelli più grandi: le vie d’uscita dalla quale i migranti hanno spiccato il salto, nuovo inizio del loro viaggio della speranza.

Fuori ad accoglierli ci sono alcuni parentiqualcuno è arrivato persino dalla Norvegia – o, nella maggior parte dei casi, una città che non conoscono. Raggiungono la stazione centrale da dove, in serata, salgono su treni diretti a Nord. Chi decide di fermarsi ancora una notte a Catania, lo fa per recuperare i documenti lasciati all’interno del Palaspedini, nascosti nelle tasche di qualche vestito. Ieri mattina l’ultimo gruppetto di siriani entra di nuovo nell’impianto sportivo. Lo stesso che per sei giorni nessuno di loro aveva la libertà di lasciare. Ad accompagnarli ci sono gli uomini della protezione civile. Recuperano i passaporti, quindi se ne vanno come erano entrati: dalla porta principale. Niente a che vedere con la scena di domenica pomeriggio, quando, mentre le donne e i bambini distraevano le forze dell’ordine con una rumorosa protesta, gli uomini forzavano la porta sul retro del palazzetto dello sport. Il fiume di persone – 260 circa – si riversava fuori, correndo verso il muro di cinta alle spalle della curva nord dello stadio Angelo Massimino, mentre la polizia osservava senza opporre resistenza. «Non abbiamo voluto fronteggiare i migranti in maniera dura, soprattutto per la presenza di numerosi minori – spiega Rosaria Giuffrè, dirigente dell’area Immigrazione della Prefettura di Catania – Aspettiamo decisioni dalla Commissione europea. Nel frattempo, affronteremo i casi di volta in volta».

Nonostante sia vuoto da circa 24 ore, dentro il Palaspedini si avverte ancora un concentrato di cattivi odori. In alto, sulle gradinate, pantaloni e calze sono appesi ai cavi elettrici e alle finestre. Ai margini del campo da gioco sono disposti in fila alcuni materassini di gomma piuma. Intorno ci sono vestiti ovunque, coperte, i veli delle donne, scarpe da tennis e quelle con un leggero tacco. La maggior parte dei migranti arriva alla stazione con le scarpe di tela blu donate dal Comune. Tutto, a breve, verrà portato via dagli uomini della nettezza urbana. Ripercorrere la fuga dei siriani nel cortile esterno è come seguire le briciole di Pollicino. Ci sono scatole di medicinali come il Lederfolin, usato dalle donne in gravidanza o in caso di anemia; buste piene di omogeneizzati e latte in cartone. Prima di scavalcare qualcuno ha lasciato anche lo zaino. Nella tasca laterale è conservato un piccolo Corano, avvolto da una custodia marrone di pelle scamosciata. Sulla prima pagina l’indirizzo della moschea di Catania, via Calì, in italiano e in arabo. Su un altro foglio un elenco di numeri telefonici scritti in caratteri arabi: alcuni col prefisso egiziano, 020; altri con prefissi italiani, un cellulare e un numero fisso che, dalle prime cifre, 0933, sembra appartenere alla zona di Caltagirone e Mineo. Un po’ più in là un maglione rosso e un foglio bianco con una sola parola: Libre.

Salvo Catalano

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