Dell’Utri: 19 ANNI di processi per scoprire l’acqua calda

Sono state quindi rese pubbliche le motivazioni della sentenza che ha annullato, con rinvio, la condanna per concorso esterno, nei confronti dell’ex numero uno di Publitalia, Marcello dell’Utri, fondatore di Forza Italia e senatore del PDL. A salvare intanto dal carcere il senatore del Pdl, il “buco” tra il 1977 e il 1982, quando lasciò il Cavaliere per andare a lavorare da Filippo Alberto Rapisarda.

A scriverlo è la Suprema Corte di Cassazione nelle motivazioni depositate della sentenza che, come già ricordato, ha annullato con rinvio la condanna in appello per concorso esterno a Dell’Utri. Ciò significa che il processo dovrà essere celebrato di nuovo in Corte d’Appello. Un annullamento dovuto a “un vuoto argomentativo” della sentenza di secondo grado, limitatamente al periodo 1977-1982, quando il manager palermitano lasciò Berlusconi per andare a lavorare dall’imprenditore Filippo Alberto Rapisarda. Infatti secondo i giudici di legittimità, nel verdetto dei colleghi della Corte d’Appello c’è “un totale vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso”. Questo il motivo fondamentale dell’annullamento.

Pertanto i Giudici di Corte D’Appello dovranno “nuovamente esaminare e motivare se il concorso esterno contestato sia oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico di Dell’Utri, anche nel periodo di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest e società collegate”. Infatti, nelle motivazioni viene anche dipinto un ruolo in chiaroscuro di Silvio Berlusconi che, per i giudici, paga ‘cosa nostra’ “in stato di necessità” per assicurare la sua protezione e quella dei suoi cari.

Per il resto, nelle 146 pagine di motivazioni la suprema Corte parla “senza possibilità di valide alternative di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quella assunzione, è stato l’artefice, grazie anche all’impegno specifico profuso da Cinà”. “Convergenti interessi” quindi del Cavaliere Silvio Berlusconi e di Cosa nostra “circa il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme in favore del sodalizio mafioso”.
Per la Suprema Corte, il senatore Marcello Dell’Utri è stato il ‘mediatore’ dell’accordo protettivo per il quale Berlusconi pagò alla mafia “cospicue somme” per la sua sicurezza e quella dei suoi familiari. E ha contribuito al “rafforzamento dell’associazione mafiosa”.

Scrivono ancora gli ‘Ermellini’  della quinta sezione penale della Cassazione: “E’ probatoriamente dimostrato, che Marcello Dell’Utri “ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell’associazione mafiosa fino a una certa data, favorendo i pagamenti a cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest. Tuttavia va dimostrata l’accusa di concorso esterno per il periodo in cui il senatore di Forza Italia lasciò Fininvest per andare a lavorare per Filippo Rapisarda”.

In un altro passaggio si legge ancora come “la consorteria mafiosa aveva, grazie all’iniziativa di Dell’Utri che si era posto come trait d’union, siglato con l’imprenditore un patto, all’inizio non connotato e tanto meno sollecitato da proprie azioni intimidatorie (la suprema Corte cita al proposito le emergenze probatorie a sostegno della tesi che le minacce ricevute da Berlusconi fossero di matrice catanese ma soprattutto calabrese) oltre che finalizzato alla realizzazione di evidenti risultati di arricchimento”. Un “patto che, per altro, risentiva di una certa, espressa propensione dell’imprenditore Berlusconi a ‘monetizzare’, per quanto possibile, il rischio cui era esposto e a spostare sul piano della trattativa economica preventiva l’azione delle fameliche consorterie criminali che invece si proponevano con annunci intimidatori”.

La quinta sezione penale scrive quindi che “la motivazione della sentenza impugnata si è giovata correttamente delle convergenti dichiarazioni di più collaboratori a vario titolo gravitanti sul o nel sodalizio mafioso cosa nostra – tra i quali Di Carlo, Galliano e Cocuzza – approfonditamente e congruamente analizzate dal punto di vista dell’attendebilità soggettiva”. Pienamente riscontrato anche “il tema dell’assunzione – per il tramite di Dell’Utri – di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa nostra” e “il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato”.

Queste sono le parole di giudici e non di partigiani della Costituzione o di ‘toghe rosse’ prevenute. Ora la questione morale, sociale ed etico-politica è di tutta evidenza. Al di là di rinvio o non rinvio, emerge un quadro dei rapporti tra dell’Utri, la consorteria di Cosa Nostra e Berlusconi, da lasciare letteralmente disgustati.
Emerge quindi con estrema chiarezza il quadro accusatorio e dei fatti già tratteggiato in precedenza dalla Corte di Appello. Ovvero come per quasi vent’anni Silvio Berlusconi ha preferito la pax con la mafia che la legalità ed è stato disposto a pagare pur di non denunciare le estorsioni subite dall’arrivo di Vittorio Mangano ad Arcore, al ‘pizzo’ delle antenne palermitane dei primi anni ’80, ai fatti nei ‘pizzini’ consegnati da Massimo Ciancimino alla Procura di Palermo con il riferimento a Berlusconi e alle sue antenne televisive.

Non proprio elegante, poi, il modo come il Cavaliere, per garantirsi la tranquillità, non ha disdegnato in tutti questi anni di intrattenersi a pranzo con boss del calibro di Bontade e Teresi, e si è persino vantato con i Carabinieri di pagare i criminali per stare tranquillo: “Via, maresciallo, per trenta milioni…!”.

Il pensiero, per parallelismo, va all’ex Presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che per molto meno sta scontando, dignitosamente, una condanna di sette anni e mezzo nelle patri galere. Ma per il Cavaliere e per il suo braccio destro è diverso, a loro basta affermare l’ottenuta impunità (non ha importanza in che modo) per affermare di essere puliti e legittimati!

Questo è il vero sgomento che si prova a leggere le motivazioni della sentenza di Cassazione: la scelta del sodalizio di mafia invece di quella della legalità a cui un imprenditore, come un politico e un rappresentante delle Istituzioni sarebbe tenuto per se stesso e per l’esempio che è tenuto a dare alla società ed ai suoi elettori. Due ‘Stati’ paralleli quindi: quello del Cavaliere e dei suoi amici e bracci destri e sinistri e quello delle Istituzioni che combattono la mafia e l’illegalità e che credono che la legge sia uguale per tutti (poveri fessi!).

Virginia Di Leo

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