Eritrea, Etiopia, Catania. Il viaggio di solo andata di due mamme eritree vittime di violenza e dei loro figli è iniziato con una fuga nei campi etiopi e si è concluso con l’integrazione a Catania, dove sono giunti attraverso i corridoi umanitari. E dove la Caritas li ha accolti, istruiti e curati nella veste di richiedenti asilo, grazie a un protocollo siglato nel 2017 con la Comunità di Sant’Egidio e il ministero dell’Interno. Oggi studiano, lavorano e a breve per una di loro ci saranno anche fiori d’arancio.
Quando l’immigrazione è donna, la violenza è quasi sempre doppia, e la guerra troppo spesso precede lo stupro. Micol, 22 anni, un figlio di cinque, e Fatima, 43 anni, madre di due ragazzi di 12 e 14, sono state vittime di entrambe. A raccontarlo a MeridioNews (che usa nomi di fantasia) è Salvatore Pappalardo, responsabile della Caritas diocesana di Catania ma soprattutto volontario instancabile, che di loro si è preso cura personalmente. «A oggi la loro integrazione è una vittoria», dice a conclusione del progetto Rifugiati a casa mia – Corridoi umanitari, giunto alla seconda edizione e che, a differenza del passato, non ha previsto l’affidamento a terzi dell’accoglienza in loco. Ultimate le pratiche avviate dal ministero dell’Interno per fare arrivare le famiglie a Fiumicino, «il progetto ha funzionato solo grazie al sostegno della Caritas, che si è fatta carico di tutte le spese – prosegue Pappalardo – ospitandole all’interno di un appartamento confiscato alla mafia, tuttora riservato a donne sotto protezione e concesso in comodato d’uso».
«Come volontario sono stato tante volte nei campi profughi, dal Libano alla Siria, per cui personalmente non posso meravigliarmi delle condizioni in cui queste famiglie sono arrivate – continua – ma oggettivamente inizialmente ci sono stati molti disagi». E spiega: «Il nostro intervento è stato innanzitutto sanitario. A entrambe le donne sono stati diagnosticati presto gravi problemi di salute. Mentre a Micol è stato asportato un tumore all’utero, Fatima ha dovuto ricoverarsi al reparto di malattie infettive per curare la tubercolosi, con la conseguente separazione forzata dai figli, destinati dal tribunale per i Minorenni di Catania a una comunità per minori fino alla guarigione della madre».
Un inizio pieno di ostacoli, affrontati a uno a uno, con un’assistenza costante e quotidiana. «Gli eritrei inizialmente alternavano reazioni di stupore e diffidenza. I primi tre mesi io e un’assistente sociale ci siamo alternati per non lasciarli mai soli, dormendo nella loro stessa struttura. Abbiamo dovuto spiegare loro tutto, anche le cose apparentemente più banali. Ma questo accadeva già a Roma. Quando siamo andati a prenderli, ci hanno chiesto se durante il viaggio potessero sedersi e dormire». Incognite aggravate dall’impossibilità di parlare la stessa lingua. «Non conoscevano né l’italiano, né l’inglese, né il francese. Parlavano solo in tigrino. Durante la prima settimana comunicavamo a gesti. Fortunatamente dopo la comunità eritrea locale ci ha messo in contatto con un mediatore». Difficoltà a cui si aggiungeva anche la questione idrica: l’acqua, altro grande enigma. «Per loro è un bene di lusso, che non va assolutamente sprecato. Non è stato facile fargli capire che si può utilizzare anche per l’igiene personale e quotidiana».
Una storia di accoglienza ma anche di perseveranza, che dopo alcuni mesi ha iniziato a dare i primi frutti. «Abbiamo da subito attivato l’istruzione scolastica, attività di cucito per le madri ed artigianale per i bambini – prosegue il volontario – e abbiamo favorito l’integrazione con la comunità eritrea locale». Dove Micol ha conosciuto il suo futuro marito. «Continua a studiare e sta per conseguire la licenza media. Adesso vuole farcela da sola», racconta con una punta di orgoglio Pappalardo. «Fatima, invece, guarita dalla tubercolosi, si è trasferita in comunità con i suoi figli e ha chiesto di essere avviata ad un progetto lavorativo. Per questo motivo ha anticipato di due mesi il distacco dal nostro progetto», dice stavolta più rammaricato. A oggi entrambe le donne hanno lasciato Catania e hanno ottenuto tutti i documenti necessari per permanere legalmente in Italia. «Grazie al protocollo siglato con il ministero, abbiamo usufruito di un canale privilegiato, che in circa sette mesi ci ha consentito di risolvere tutto», conclude Pappalardo.
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