Dalla violenza degli ex partner a quella dei tribunali Quei «processi alla moralità» che uccidono due volte

Squilibrate. È così che molti uomini descrivono quelle che fino a qualche tempo prima sono state le loro donne. Quelle, per lo meno, che non sono riusciti ad ammazzare. Foto, denunce, lastre, referti non sempre bastano per non subire ancora. A volte persino dentro aule in cui i loro racconti, quelli delle sopravvissute, vengono distorti, manipolati, fino a diventare storie completamente diverse. Dove la vittima diventa all’improvviso la carnefice: è lei quella che ha aggredito, è lei quella che ha messo le mani al collo, è lei quella che ha tirato fuori il coltello. E quei lividi sul suo corpo, allora? Se li è fatti da sola, arriva a dire qualcuno. Mentre la vita di ogni vittima viene puntualmente messa a nudo in ogni dettaglio più intimo. Storie su storie su altre storie ancora. Ognuna diversa, ognuna a suo modo uguale. Per qualcuna sono anni interminabili di violenze d’ogni tipo. Da quelle fisiche a quelle psicologiche. Fino alla denuncia.

E poi il processo, il carcere, per qualcuno il patteggiamento e i lavori socialmente utili. Sì, perché c’è anche chi di galera non si fa nemmeno un giorno. E a fare i bagagli rinunciando alla propria vita, alla fine, è proprio chi ha subìto. Nuovo posto, nuova casa, nuovo lavoro, nuove amicizie. Ma quanta fatica. «Una donna che denuncia il suo aguzzino deve sapere purtroppo che la sua è una vita dal destino segnato – si sfoga T., di Casteldaccia. E tutto questo è terribilmente assurdo e ingiusto, e solo perché la legge sta sempre dalla parte dei criminali». Non sempre le aule dei tribunali sono quei luoghi accoglienti che ci aspetteremmo. Le donne che denunciano, lì dentro, vengono spogliate di tutto: abitudini, costumi, gusti, intimità. Ogni aspetto della loro vita, della loro personalità viene passato al vaglio attento di magistrati e avvocati. «Signora questo è un processo alla sua credibilità. Alla sua moralità», ha detto solo pochi giorni fa il legale di un uomo che ha quasi ammazzato la sua donna, una sera d’estate, mentre dormiva di fianco a lui.

Denigrare, umiliare, mortificare per difendere qualcuno. «Lei si prostituiva? Lei aveva un amante? Lei era di facili costumi? Lei si divertiva? Lei come si vestiva?», si sarebbe sentita domanda più di una vittima. Dai compaesani agli avvocati, sono questi a volte i toni usati. No, nessuna si prostituiva, nessuna tradiva. Ma se anche fosse stata questa la verità di questa o quella storia, qualcuna meritava di finire quasi uccisa? Meritava anni di violenze e percosse e minacce? Meritava ingiurie, offese, pedinamenti e appostamenti sotto casa, fuori dai negozi, lungo ogni strada? A starsene seduti ad ascoltare certi processi, pare di sì. Ma se nemmeno dentro un’aula giudiziaria una donna che faticosamente denuncia può sentirsi al sicuro, allora come potranno mai scomparire tutti quei pregiudizi che, punto e capo, non fanno che germogliare attorno a ogni storia che vede una donna vittima di un uomo?

«Raccontando quello che non funziona ancora, denunciando le lacune, facendole venire fuori e condannandole». Luigia Billone non ha dubbi su questo. Lei, psicologa dello sportello antiviolenza inaugurato a marzo in via Serraglio Vecchio 28, nell’ambito del progetto Amorù-rete territoriale antiviolenza, è una delle tante figure che nelle storie in cui si imbatte ci mette non solo tutta la sua professionalità e serietà, ma anche una buona dose di sensibilità. Quella che tutti dovrebbero avere di fronte a certe situazioni, di fronte a certe vittime. «La responsabilità è di tutti, è nostra – spiega -, associazioni, realtà sociali, psicologi, forze dell’ordine, istituzioni. Capita che chi va in quelle aule di tribunale sia un avvocato privato, che spesso non ha una formazione specifica su questo tema. Malgrado comunque occorra sottolineare che a Palermo ci sia invece molta sensibilità e tante cose sono state fatte e continuano ad essere fatte quotidianamente».

Realtà come i centri antiviolenza, infatti, non si limitano a supportare le donne nel liberarsi in tutti i sensi delle violenze denunciate, ma organizzano anche momenti di sensibilizzazione e di formazione degli operatori del settore. Senza contare che esistono linee guida cui allinearsi, la direttiva europea del 2012, il trattato di Lisbona, il codice rosa. Gli strumenti ci sono, insomma. «Però ancora siamo lontani – rivela la dottoressa Billone -. Ce lo dice quello che a volte accade proprio dentro le aule dei tribunali. Molte persone che si ritrovano a gestire queste situazioni non hanno idea di quello che queste donne devono rivivere, una recrudescenza di un trauma che le costringe a dover fare i conti per tutta la vita con un disturbo post traumatico da stress con effetti devastanti». Il fatto di ritrovarsi a raccontare ad estranei quello che è successo è un continuo rivivere tutto quello che è stato, «non avere la possibilità di farlo in condizioni di sicurezza e in maniera protetta, con la necessità di scendere in particolari anche intimi, diventa pericoloso per questa persona. Per questo la responsabilità è di chiunque lavori in questo ambito».

Non restare indifferenti alla violenza, quindi. Questa la base da cui partire, dotandosi di tutti gli strumenti necessari. «Chi non le tutela in questo senso non sta facendo al meglio il suo lavoro», torna a dire la psicologa. Come sconfiggere pregiudizi che, al contrario, in questo modo continuano ad essere alimentati? «Chiamando innanzitutto le cose col loro nome: qui parliamo di vittimizzazione secondaria, quando cioè la vittima ritorna a vivere per la seconda volta questa violenza, ma stavolta da parte delle istituzioni che paradossalmente se ne dovrebbero prendere cura, questa è una cosa molto grave. Non si può non tenere conto delle linee guida cui siamo tutti chiamati ad allinearci, e questo vale sia per avvocati che si esprimono in un certo modo sia per quei giudici che questi modi li tollerano permettendo certe domande e atteggiamenti. Ci deve essere un limite».

«Gli avvocati devono prendere coscienza del fatto che le parole hanno un peso e delle conseguenze, specie su una persona che ha alle spalle un caso di violenza di genere. Il versante penale è certo complesso e molto pesante per queste vittime, ma anche quello sociale può esserlo: ci sono donne che devono comunque vedere l’ex in uno spazio neutro per portare i figli e garantire il diritto del padre di vederli, e spesso quando non ce la fanno e temono continuamente questi momenti, certi operatori si lasciano andare a commenti fuori luogo. “Signora ma lei perché ce li ha fatti i figli con questa persona? Ci doveva pensare prima”. Cose veramente aberranti che vanno denunciate, noi dobbiamo supportare queste donne, non giudicarle», insiste la dottoressa Billone. Tutte le storie di violenza di genere hanno alla base sempre lo stesso meccanismo, è un copia e incolla: molte spesso perdonano, si fidano, tornano sui loro passi, è da manuale.

«Chi non lo sa tende a giudicarle, “lei cretina che c’è tornata”, “lei cretina che c’è stata per vent’anni”, “lei cretina che c’ha fatto pure dei figli”. Pregiudizi su pregiudizi. “A me non succederà mai, succede solo ad alcune donne” pensa ancora oggi qualcuno, ma non è così, la violenza è trasversale, riguarda ogni ceto sociale, colpisce donne di qualsiasi età, e queste bisogna dirle». E soprattutto bisogna preparare ogni donna che denuncia a tutto quello che sarà. «Ci si augura sempre che non sarà un massacro, e che si possa incontrare gente sensibile e professionale. In ogni caso una donna non può arrivare in tribunale da sola, ha bisogno di recuperare quel minimo di risorse necessarie per affrontare un percorso che purtroppo è lungo, faticoso e difficile e che non può fare da sola. In questo i centri antiviolenza sono fondamentali – spiega -, aiutiamo le donne a capire, le informiamo su quello che affronteranno quando comincerà la parte legale, durante la quale comunque ci sarà un operatore sociale degli sportelli sempre al loro fianco, accompagnarle è fondamentale per affrontare con serenità questo percorso. Le donne devono sapere che possono essere aiutate, informate, supportate, solo queste cose possono fare davvero la differenza».

Silvia Buffa

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