Dalla Sicilia alla Lombardia, giovane medico in prima linea «Vediamo una piccola luce, io qui perché amo il mio Paese»

Quando in Italia è scoppiata l’emergenza Coronavirus, Fabio Grassia era a Miami. Da neurochirurgo 33enne stava ultimando la sua formazione negli Stati Uniti, dove sarebbe potuto rimanere per altri due mesi a godersi il tepore della Florida. Il suo sogno d’altronde è lavorare Oltreoceano. Non lo ha fatto. «Se decidi di fare questo lavoro non puoi sottrarti quando c’è da dare una mano». È tornato, prima a casa, in Sicilia, nel suo paese: Bronte. Poi ha risposto all’avviso della Regione Lombardia, assetata di medici da schierare in prima linea contro il virus che non risparmia gli operatori sanitari. «Mi sono laureato a Milano – racconta a MeridioNews -, cinque anni fa in questa regione ho iniziato a fare la guardia medica, ho subito ripreso e da alcuni giorni mi hanno chiamato all’ospedale di Garbagnate Milanese». Una delle strutture sanitarie interamente convertita per ospitare pazienti affetti da Covid-19. «Ce ne sono circa duecento. La situazione resta grave, ma il primo sentore di questi giorni è che stia piano piano migliorando, la pressione sull’ospedale si è leggermente allentata. Si vede una piccola luce». 

Qual è stato il suo impatto con l’emergenza in Lombardia?
«Ho iniziato con la guardia medica sul territorio, Asl di Monza e Brianza, in provincia di Lecco. Responsabilità su una decina di Comuni attorno a Merate. Posso dire che è peggio dell’ospedale. I malati sono tantissimi, i numeri reali sono molto più alti di quelli che finiscono nei conteggi ufficiali dei contagiati. Fortunatamente anche assistendo le persone non ospedalizzate, il sentore è che qualcosa migliori».

Che miglioramento osservate?
«Due sabati fa in un turno ho assistito 40 pazienti, di cui almento 30 erano sospetti casi Covid. Ma nel mio ultimo turno le chiamate si erano dimezzate. In Lombardia la risposta dei medici di base e di quelli di guardia medica è stata straordinaria. E altissimo è stato il livello di collaborazione tra le varie parti del sistema sanitario: tra il 118 e i medici, tra tutte le figure professionali coinvolte, tra diversi reparti di ospedale. Senza questa organizzazione – che in Sicilia faccio fatica a riscontrare – i morti sarebbero stati il doppio».

C’è un caso affrontato in guardia medica che le è rimasto impresso?
«Ce ne sono due. Quello di una signora che mi chiama perché il padre di 76 anni aveva la febbre da 15 giorni, mai superiore a 38, con alti e bassi e tosse secca e faceva fatica a stare in piedi per la debolezza. Un caso non da ospedalizzare visti i sintomi ma preoccupante. Fortuntamante avevamo tutti i dispositivi di protezione – cosa non scontata, ce ne sono molto pochi anche qui – e siamo andati a casa. Quell’anziano aveva sicuramente il Covid, ma era pure molto disidratato, si nutriva e beveva male. Lo abbiamo salvato in tempo. E un altro caso di un anziano che 24 ore prima del mio intervento era stato visitato dal medico di base che non aveva riscontrato grave stress respiratorio e che inveve in pochissime ore era precipitato. Col saturimetro è stato evidente e abbiamo subito fatto intervenire il 118. Anche in questo caso lo abbiamo salvato».

Che situazione ha trovato in ospedale?
«È tutto abbastanza strano. Mi ha accolto il primario, abbiamo parlato a distanza. In questi giorni sono nel reparto di Medicina per prendere confidenza, ma presto farò anche pronto soccorso. Sia quello dedicato a sospetti Covid che quello definito “pulito”. Si va dove c’è bisogno, siamo jolly».

Anche lei lavora da libero professionista, come tanti suoi coetanei siciliani che hanno risposto al bando della Regione. Non ha paura dei rischi?
«I rischi sono enormi, questa situazione è un vero dramma. Non solo bisogna pensare autonomamente e pagare un’assicurazione per i rischi penali (la colpa lieve o grave), ma anche per eventuali richieste di risarcimento danni in sede civile. Quando ti assumono gli ospedali sono chiari: se succede qualcosa ci rivaliamo su di te, devi avere un’assicurazione. Ma le assicurazioni professionali, poi, non coprono i rischi di contagio. Per quello ho l’assicurazione sulla vita. Il problema è comune in tutta Italia: gli ospedali erano pieni di medici in libera professione anche prima del Covid. Spero che se ne ricordino finita questa emergenza».

È ottimista da questo punto di vista?
«No, oggi medici e infermieri sono eroi. Ma sono convinto che verremo dimenticati di nuovo, non ci saranno assunzioni e i reparti rimarranno svuotati, sottodimensionati».

A proposito di rischi, ci sono studi legali che, più o meno esplicitamente, in questi giorni si mettono a disposizione per eventuali casi di malasanità legati al Covid-19.
«Non solo, so di diversi colleghi già denunciati e i casi aumenteranno con l’aggravarsi della crisi economica. Secondo me chiunque fa pubblicità del genere andrebbe radiato dall’albo degli avvocati, non è etico e non è legale. Le persone non capiscono che se i medici sono preoccupati per il rischio legale, non agiranno mai liberamente. Io faccio il neurochirurgo, ogni mia scelta è un rischio. E mi ritrovo a pregare due volte: quando entro in sala operatoria e quando esco perché nessuno mi denunci. Mi associo ai colleghi che chiedono un’amnistia in questo periodo, per far decadere tutte le denunce».

Il suo obiettivo è tornare negli Usa?
«Sì. Tanti anni fa si andava negli Stati Uniti per imparare, era una scelta. Oggi i giovani medici sono stati costretti ad andarsene. In Italia prima di questa emergenza nessuno ti offriva nulla di interessante tra clientelismo e concorsi non proprio trasparenti. Io amo questo paese e credo di averlo dimostrato tornando nel momento di necessità. Il mio sogno è andare negli Usa e tornare con qualcosa di positivo, ma me lo devono permettere. Chiedo che alla fine di questo periodo non ci costringano ad andare via altrimenti alla prossima emergenza rimarranno i pensionati, che sono ammirevoli perché rischiano, ma a questo Paese servono medici giovani».

Salvo Catalano

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