Mezzocorona, 16 febbraio 2001. Un assegno da 36 milioni di lire viene staccato in favore dell’Agro Invest. Con quel titolo di credito, il terzo nel giro di poche settimane, si chiude un’operazione del valore di 13 miliardi di lire. I soldi partono dalla provincia di Trento, finiscono in Sicilia e servono ad acquistare terreni nell’Agrigentino. Passano due anni, la moneta che circola in Italia è diversa, ma la direzione dei soldi resta la stessa: da Mezzocorona parte verso il profondo Sud un bonifico da 18 milioni di euro. È il versamento più corposo di una compravendita di fondi agricoli ad Acate (Ragusa) che nel 2005 si conclude per circa 21 milioni. Beneficiaria, pure in questo caso, è la Agro Invest. Sono questi i passaggi con cui, secondo la procura di Trento, a inizio anni Duemila Cosa nostra riuscì a riciclare un immenso patrimonio sfruttando l’appetibilità delle terre siciliane per il settore vitivinicolo.
I protagonisti di questa storia sono quattro: da una parte ci sono gli imprenditori trentini Fabio Rizzoli e Luca Rigotti, dall’altra, i siciliani Gian Luigi Caradonna e Giuseppe Maragioglio. Entrambi originari di Salemi, nel Trapanese, sono ritenuti uomini di fiducia di Nino e Ignazio Salvo, i potenti cugini passati alla storia della criminalità organizzata per essere stati gli esattori di Cosa nostra. Rizzoli e Rigotti – in tempi diversi al vertice del gruppo Mezzacorona, che nell’isola commercializza il vino con l’etichetta Feudo Arancio – così come Caradonna e Maragioglio sono accusati di concorso in riciclaggio con l’aggravante di avere favorito la mafia. Mentre i terreni gestiti dal gruppo imprenditoriale trentino ad Acate e Sambuca di Sicilia sono stati sequestrati.
Ancor più che la passione per i vitigni, al centro della doppia compravendita ci sarebbe stato l’interesse dei siciliani di evitare che i beni potessero essere sottratti dall’autorità giudiziaria. Per questo ne sarebbe stata decisa la cessione a condizioni ben precise e in cambio di un fiume di denaro presto sparito dai radar delle Fiamme gialle. Quei soldi, è la convinzione dei magistrati, sono serviti per riciclare l’eredità dei Salvo. In principio i terreni erano stati di proprietà di Finanziaria Immobiliare, società riconducibile ai due cugini che, fino a inizio anni Ottanta, si occuparono di riscuotere i tributi per conto del pubblico riuscendo ad accumulare un’ingente fortuna.
A indicare nei Salvo due pilastri di Cosa nostra nel tempo sono stati numerosi pentiti: da Tommaso Buscetta a Francesco Marino Mannoia, da Giovanni Brusca a Gioacchino Pennino. Quando entra in scena il gruppo Mezzacorona, però, sia Nino che Ignazio sono morti da un bel po’: il primo a metà anni Ottanta, ancor prima di comparire tra gli imputati del maxiprocesso, il secondo, nel 1992, ucciso da Cosa nostra. La gestione del patrimonio passa così al nipote di Nino Salvo, Gian Luigi Caradonna, e al fidato Giuseppe Maragioglio. Sono loro che in tempi diversi si siedono al tavolo con Rizzoli e Rigotti per trattare la cessione dei fondi agricoli da parte della Agro Invest, nel frattempo subentrata a Finanziaria Immobiliare.
Caradonna e Maragioglio, tuttavia, sarebbero stati i titolari soltanto sulla carta. «Nella realtà i beni dei cugini Salvo, dopo la loro morte, vennero principalmente gestiti dai due generi di Antonino Salvo, Giuseppe Favuzza e Gaetano Sangiorgi», si legge nel decreto di sequestro. Tesi in passato sostenuta anche da diversi collaboratori di giustizia. È proprio uno di loro, l’ex rappresentante provinciale di Agrigento di Cosa Nostra Maurizio Di Gati, che rivela alcuni retroscena che vedono coinvolti gli imprenditori trentini. «I cugini Salvo avevano un grosso feudo a Sambuca di Sicilia che poi è stato acquistato da imprenditori del Nord – mette a verbale Di Gati -. Il feudo lo voleva gestire Leo Sutera (il boss di Sambuca, ndr). Gli imprenditori non erano propensi ad avere contatti e quindi per convincerli sono state organizzate delle spedizioni al Nord. Vi fu un accordo nel senso che nell’amministrazione e nella produzione entrarono persone di fiducia di Leo Sutera e quindi anche mia».
A rafforzare il convincimento che i vertici di Mezzacorona sapessero fin dal primo momento di trattare con soggetti malavitosi è anche una deposizione di Rizzoli. Nel 2013, l’uomo davanti al procuratore di Ragusa ammette che quell’operazione immobiliare era stata autorizzata dal carcere. A dare il via libera era stato Gaetano Sangiorgi, all’epoca dei fatti considerato il capo della famiglia Salvo. Rizzoli ai magistrati racconta di avere chiesto a un imprenditore di Mazara del Vallo di far pervenire agli eredi dei Salvo la volontà di trattare l’acquisto dei terreni. «Mi rispose che per il momento non se ne poteva fare niente. Mi spiegò che uno degli eredi dei proprietari era in carcere e se non vi fosse stato il suo benestare nessuna vendita si sarebbe potuta realizzare», è la ricostruzione dell’imprenditore trentino. Rizzoli ammette anche di aver saputo che i fondi in passato erano dei Salvo.
Lo stallo, tuttavia, non dura molto. «Dopo alcuni mesi – aggiunge Rizzoli davanti ai magistrati ragusani – mi fece sapere che la situazione del terreno di Sambuca di Sicilia si era sbloccata perché, come mi parve di capire, l’erede dei Salvo detenuto era stato condannato all’ergastolo».
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