«Che Natale mi aspetta? Lo stesso degli ultimi 15 anni: spento. Gesù ancora una volta nascerà nelle case dei mafiosi che si riuniranno e divertiranno con le proprie famiglie. Gli stessi che pregano nelle cappelle private delle loro lussuose ville prima di ordinare di uccidere qualcuno. E io che ho fatto la cosa giusta sono isolato da tutti e da tutto». È un isolamento, quello di Giovanni Sollazzo, iniziato all’indomani delle sue denunce contro gli usurai di cui è rimasto vittima. Non si piega, esce allo scoperto, parla con le forze dell’ordine, fa nomi e cognomi. Tra i suoi aguzzini ci sono anche quei Mancuso di Limbadi finiti, alcuni di loro, in manette nel mega blitz di pochi giorni fa a Vibo Valentia. «Sono dei sanguinari, hanno un enorme potere economico e quindi possono comprare chiunque, dal comandante dei carabinieri agli avvocati ai politici – racconta Giovanni -. Parliamo di una famiglia che nasce in un paesino in provincia di Vibo, un nucleo composto da 15 fratelli, non parliamo di una Cupola come quella siciliana, una famiglia sola che arriva dove vuole e a chi vuole».
Sono questi i nomi che fa Giovanni, che denuncia tutto quello che subisce. Consapevole che da quel momento per lui inizierà una vita diversa. Nel giro di poco, infatti, insieme alla famiglia viene inserito nel programma di protezione. È un testimone di giustizia. Ma qualcosa, a pochi mesi dall’inizio di quella vita-non vita, prende un’inaspettata piega. «Ad oggi sono un ex collaboratore di giustizia, almeno per lo Stato. Ma non so, in questa categoria, da quale porta entro, io l’ho saputo il 12 luglio 2007 da una telefonata. Solo che io non sono un pregiudicato, non appartengo a nessuna famiglia di mafia. Io ho solo denunciato per usura». Nessuno gli spiega il perché di questo cambio di status. Lui e la famiglia provano ripetutamente a chiedere dei chiarimenti, ma in tanti anni da parte delle istituzioni ricevono soltanto silenzio. Restano sotto protezione fino al 2016, fino alla scadenza dei termini del contratto. Che, per volontà del ministero degli Interni, non viene rinnovato. «A quanto pare non sono più a rischio – racconta Giovanni -. L’ennesima cosa detta a voce, di scritto ovviamente non c’è mai nulla». È ormai fuori quando, al massimo dell’isolamento raggiunto dopo aver deciso di denunciare i suoi aguzzini, entra in contatto con Luigi Bonaventura e con la sua idea, che di lì a poco si concretizzerà nell’associazione dei Sostenitori dei testimoni e dei collaboratori di giustizia, in cui Giovanni ricopre il ruolo di segretario.
«Palermo è non a caso la città in cui si trova la sede dell’associazione – spiega -. È una città simbolo, sia in fatto di mafia sia, al contrario, in fatto di lotta alla mafia. Non è solo la terra delle stragi, di Falcone e Borsellino, è anche quella dove c’è il primo collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta. Non si poteva non scegliere Palermo». È la realtà dell’associazione che gli ha restituito, finalmente, un input per andare avanti, per fare rete e portare allo scoperto la sua storia e quella di tutti gli altri denuncianti. Che, ancora oggi, vengono lasciati ai margini, in balìa di pregiudizi e falsi miti e, purtroppo, della solitudine più feroce. «Dall’oggi al domani prendi e parti con due valige piene di speranze. Ma non sai che, in realtà, sei solo con quattro bauli pieni al contrario di incertezze». Perché in una vita che ricomincia da zero sotto protezione diventano un ostacolo o addirittura un rischio anche le cose più semplici. Come mandare a scuola i propri figli. «Ci vanno con le proprie generalità, tanto per cominciare – spiega -. E già l’iscrizione è problematica, ma anche prendere semplicemente il cedolino per l’acquisto dei libri. Mio figlio è stato l’unico a doverlo ritirare in segreteria, tutti hanno cominciato a fare domande, a chiedere il motivo. Abbiamo avuto la risposta pronta, dicendo che dato che eravamo nuovi magari mancava alla scuola ancora qualche documento. Ma questa cosa accade di continuo». Una recita senza fine, fatta di bugie su bugie. Sullo sfondo di un sistema di protezione che non protegge, che non ti nasconde davvero, dove chiunque e in qualunque momento potrebbe benissimo arrivare a te e alla tua famiglia.
L’altro ostacolo immediato con cui un denunciante come Giovanni si deve confrontare è quello della ricerca del lavoro. «Non conoscendo nessuno non sai dove andare. E non c’è nessuno che si impegna a darti una mano in questa ricerca. Anche se lo Stato, da contratto, dovrebbe garantirci un reinserimento. Ma non funziona così, non esiste niente, non esiste nessuno – spiega -. Mentre la gente continua a domandare, sempre di più: “Cosa ci fai qua?”, “Da dove vieni?”, “E che lavoro fai? Come fai a vivere”. Cosa dovrei dire?». Lui, però, con tenacia e forza di volontà riesce a trovare, con le sue sole forze, un posto in un’azienda. «Lo devo a me stesso – dice -. Ma il contratto con lo Stato diceva altro. Se chiedi però spiegazioni, anche per questo, ti rispondo che loro non sono l’ufficio di collocamento. Allora li esorti a togliere quella clausola particolare, ma anche qui accampano sempre scuse e giustificazioni. E dicono che tanti ex collaboratori avrebbero causato problemi dopo che lo Stato avrebbe trovato loro un lavoro». Intanto Giovanni ce la fa, sempre da solo. «Nessuno si è mai interessato della mia situazione, nonostante le mie denunce. Nessuno mi ha mai dato niente. E sin dall’inizio. Durante un trasferimento, presi in consegna dai funzionari del Nop a Roma per essere trasferiti a Nord Italia, mio figlio ha cominciato a piangere disperato perché aveva fame – racconta -. Aveva solo sei anni, eravamo in viaggio dalla mattina. Nessuno però degli operatori ha tirato fuori un euro per comprargli una brioche. Là ti senti proprio annientato, è stato come toccare il fondo».
Giovanni prende consapevolezza del fatto di essere, lui con la sua famiglia, completamente solo. E senza nessuno a coprirgli le spalle. E lo sa soprattutto quando torna nella sua terra. «Mi dicono che non c’è nessun pericolo, ma lo sappiamo tutti che il conto lo paghi solo con la morte. La ‘ndrangheta c’ha i soldi, può fare tutto e arrivare dappertutto. E comprare chiunque, ha tutte le coperture possibili, lo dimostra anche l’ultimo grande blitz di pochi giorni fa. Marcello Bruzzese, fratello di un collaboratore, è stato ucciso dopo 20 anni da quella collaborazione. Significa che la ‘ndrangheta non ha un tempo. Ma intanto, sotto programma o meno, non puoi chiuderti in casa, altrimenti puoi solo impazzire – dice -. Basterebbero un cambio di generalità totale e un lavoro, in modo che la gente ti identifichi per quello che tu fai non per quello che tu sei. Ma tutto questo non avviene. I magistrati pubblicamente parlano dell’importanza dei collaboratori, ma intanto, passati i titolo dei tg e spenta l’attenzione, non serviamo più a niente. Per questo è importante l’associazione di Palermo, è il grido di noi che siamo cadaveri che camminiamo da soli». Ma a subire le sorti peggiori sarebbero proprio i famigliari di chi denuncia, specie i figli.
«Le discriminazioni che subiscono sono atroci. In quanto figli di un collaboratore non possono neppure fare un concorso per accedere all’amministrazione pubblica, perché viene classificato come un soggetto criminale, un mafioso in pratica. Mentre i veri mafiosi sono seduti ai tavoli di chi comanda». Sono tante le falle e i paradossi del sistema in cui viene inghiottito chi denuncia, e che lo Stato non sembra aver alcuna intenzione di migliorare, di far finalmente funzionare. Restando sordo alle denunce, alle storie, agli omicidi, a queste vite. «Il magistrato che ti manda sotto protezione non sa nemmeno poi come funziona davvero. C’è una commissione centrale antimafia che viene bersagliata di richieste di audizioni, ma a noi nemmeno risponde, è normale? – si chiede -. E poi, le differenze ci sono anche tra quei pochi fortunati che sono protetti. Ci sono quelli di serie a e quelli di serie b. E se muore uno di noi, uno come me che non ha né scorta né niente, se ne può parlare un giorno, e nessuno avrà mai dei problemi. Eppure io rifarei tutto, lo rifarei per la giustizia e per tutti quelli che non ce la fanno e oggi hanno ancora paura», dice Giovanni. Che, a modo suo, quella paura, anche se diversa, ce l’ha anche lui. È un sentimento costante, che non può lasciarlo. «Sapete come mi sento se mi figlio esce la sera e alle 23 non è ancora tornato a casa? Immaginate cosa mi passa per la testa? Lo Stato si prende cura dei figli dei mafiosi, non dei nostri. I nostri sono figli di nessuno, lo Stato non li ha mai nemmeno visti, non ci ha mai detto nulla, chiesto nulla. E nessuno ha mai domandato ai nostri figli cosa volessero per la propria vita».
«Con quella paura, insomma, ci devi convivere – dice -, somatizzare la situazione, abituarti a vivere di pari passo con la morte, tutti i giorni. Devi fartela amica, consapevole che domani potrebbe essere il giorno in cui, mentre cammina a fianco a te, decide di prenderti. E sono più i figli e le famiglie quelli che rischiano. Quella dei collaboratori è l’unica categoria che paga ancora col sangue, l’unica. Nemmeno la mafia uccide più, nelle sue guerre. È il sistema che deve cambiare». Per questo Giovanni lancia un appello, l’ennesimo, alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese perché intervenga urgentemente affinché venga rivisto un «programma di protezione che non protegge».
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