Da San Cataldo ai Caraibi, buen retiro di un 84enne «La povertà mi ha tenuto 60 anni lontano da casa»

«Dopo molti anni di duro lavoro ora posso godermi la mia famiglia». Con un sorriso sulle labbra, Rosario Saetta, classe 1933, descrive così la sua nuova vita sull’isola felice di Aruba, situata nel mare dei Caraibi. «In questo angolo di Paradiso, ho trovato serenità e sicurezza. Ancora non riesco a credere di essermi liberato dalla vita pericolosa degli ultimi anni in Venezuela. A volte sogno di essere lì e di venire inseguito da delinquenti armati che vogliono derubarmi, ma poi mi sveglio e mi accorgo che grazie a Dio è stato solo un brutto sogno».

Con un passato da emigrante oltreoceano, iniziato quando, poco più che ventenne, lascia San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, per tentare la fortuna in Venezuela, e un presente fatto di figli e nipoti, oggi all’età di 84 anni ritorna con la memoria al viaggio che segnò l’inizio della sua nuova esistenza. «Lo ricordo come fosse ieri – racconta -, era il 10 novembre 1953. Avevo 20 anni, partivo per il Venezuela da Napoli con una nave che si chiamava Castel Bianco, ero pieno di speranze e desideri e volevo conoscere il mondo». Al porto di Caracas, ad attenderlo il fratello Enzo e il cugino che vivono lì da circa tre anni. «Il mio progetto era di lavorare qualche anno, sposarmi con una paesana e tornare a vivere in paese».

Nella lontananza, il giovane sperimenta la nostalgia verso gli affetti familiari e San Cataldo. «Quando ripenso che ho passato sessant’anni anni lontano dai miei cari e poi ricordo i miei primi vent’anni trascorsi in campagna, nella povertà, capisco che questa è stata la ragione che mi ha spinto a restare in Venezuela». Terzo di cinque figli, dopo la scomparsa prematura della madre Vincenza, inizia a lavorare in campagna con il padre Antonio. «La nostra era una vita di poveri contadini. Mia sorella maggiore Marietta a soli 17 anni è diventata per me, Enzo, Dina e Angelo come una mamma: cucinava, faceva il pane e lavava i nostri vestiti a mano perché all’epoca non esistevano le lavatici».

Lavoratore instancabile, Rosario si è cimentato nella più svariate professioni: carpentiere, stiratore, addetto a domicilio di tintoria, specializzato in lavanderia, incaricato alla vendita di ossa e grasso delle macellerie ad una industria di saponi, titolare di una fabbrica di pantaloni, costruttore e albergatore. «All’inizio è stata dura, ma mio fratello mi ha trovato un impiego da un falegname dove imparai a fare i ganci per grucce dei vestiti che si usavano in tintoria». Parla e quasi si emoziona mentre mostra una foto della sua giovinezza con il migliore amico Vincenzo Napolitano, anche lui emigrato siciliano e compagno di tante avventure. «Abbiamo condiviso 54 anni di vita insieme. E adesso che non è più in vita, la sua sincera amicizia e il suo affetto rimarranno per sempre nel mio cuore».

Nel 1954, in Venezuela, inizia a lavorare nella tintoria del fratello e, visto che è l’ultimo arrivato, gli tocca stirare vicino alla caldaia. «Non era facile sopportare quel caldo», ricorda ma la sua forza di volontà ha il sopravvento e diventa il miglior stiratore della tintoria. Con la stessa determinazione affronta una broncopolmonite a pochi giorni dalla sue nozze. «Il dottore che mi visitò mi suggerì di rimandare, ma io dissi a mio padre: domani mi alzerò e andrò in chiesa. E così è stato. Ho sposato la mia Angelina, bedda ca cumu a idda nunginnè, con la febbre e questa è stata la più bella prova d’amore». Da quel giorno sono trascorsi 47 anni, ma l’affetto è rimasto immutato nel tempo e ad unire la coppia, anche l’arrivo di due figli: Esmeralda e Danilo. «Ricordo ancora la prima volta che la vidi. Era il 1966 e io ero tornato al paese in vacanza. La incontrai durante una festa di matrimonio. Aveva 17 anni e mi innamorai subito di lei».

Difficile la vita da emigrati in un paese politicamente sempre più instabile. È il 1977 e per sette anni la famiglia è costretta a separarsi: Angelina incinta di Danilo torna in Sicilia con la piccola Esmerlda mentre Rosario compra un hotel a San Felix e inizia la costruzione di un motel. «Lavoravo giorno e notte pensando che un giorno sarei tornato in paese dalla mia famiglia». Ma il suo sogno si infrange quando le autorità bloccano i lavori. Anni da «notti insonni». Ma nel 1981 riesce a inaugurare l’Hotel El Nilo e nel ’91 il motel La Luna. È la fine di tutti i loro problemi. La famiglia va a vivere in una nuova casa a Puerto Ortaz.

Ma i pericoli, dalla fine degli anni ’90, aumentano. «Nell’hotel El Nilo i delinquenti non ci lasciavano in pace». L’aumento della delinquenza spinge la figlia, con marito e figlie, a trasferirsi ad Aruba, nei Caraibi, dove il padre ha acquistato un hotel. Dopo tante vicissitudini, i coniugi Saetta vanno a vivere definitamente sull’isola alla fine del 2013. «Vedere cosa è diventato oggi il Venezuela mi fa male, perché amo quella terra a cui devo molto. Mancano i beni di prima necessità, non è facile reperire il pane e la pasta e il sapone per lavarsi. C’è tanta gente ridotta alla povertà che soffre ma non sa dove andare, pertanto è costretta a rimanere e sopportare gli abusi di un governo totalitario che viene spacciato per democrazia».

La sua vita è da esempio a chi sa cogliere le occasioni e si impegna per realizzare i propri sogni. «Ai giovani che partono via dalla Sicilia dico che la migrazione di oggi è diversa da quella di ieri. Quando arrivai a Caracas c’era tutto da fare: strade, infrastrutture, edifici. A quei tempi, il lavoro non mancava e chi partiva faceva soldi. Adesso non è più così. Chi decide di emigrare deve avere o una specializzazione ricercata in quel paese oppure possedere un progetto di vita. Al contrario, chi improvvisa rischia di fallire e ritorna senza aver combinato nulla».

Concetta Purrazza

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