Da Parigi allo Zen, la storia di un’insegnante «La mia scelta alla preside sembrava strana»

A Parigi insegnava musica di fronte la Torre Eiffel, «dall’aula professori sembrava quasi di poterla toccare». È l’ottobre del 2016 e Alessandra – giovane docente palermitana – difficilmente avrebbe potuto indicare di meglio quando si è inserita nelle graduatorie dei supplenti all’estero. Dall’Italia intanto continuano ad arrivarle proposte di cattedre. Tra cui quella che «la fa entrare in crisi»: una docenza annuale come insegnante di sostegno alla scuola media Falcone, allo Zen2 di Palermo. Alessandra ci mette poco a scegliere: lascia l’incarico dopo appena un mese, prende il treno e torna nel capoluogo siciliano, in una delle periferie più difficili della città. Pochi giorni fa ha festeggiato l’immissione di ruolo, insegnerà in istituti più centrali e sempre a Palermo. E da un anno in tanti continuano a chiederle per quali motivi si possa preferire di lavorare allo Zen, «tra casermoni e cassonetti strapieni e auto bruciate», invece che a Parigi, «in un quartiere super figo e in una scuola che aveva una splendida sede», come racconta la stessa Alessandra. 

«La mia è stata una scelta razionale – spiega la docente – dettata anche dal fattore economico: a Parigi non si trattava di una cattedra completa, erano otto ore di insegnamento settimanale anche se pagate più o meno quanto le 18 ore che poi ho svolto allo Zen. Ma a parità di stipendio in Francia avrei dovuto trovare un altro impiego e nel frattempo avrei dovuto tirare un po’ la corda. Certamente c’era la voglia di tornare nella mia città, di insegnare in un contesto differente, di poter godere di uno stipendio pieno». Alessandra non era mai entrata allo Zen prima di insegnare: «Non avevo idea di come fosse il quartiere perché finché non lo vivi e non lo sperimenti non puoi saperlo davvero. La preside al telefono non era molto convinta, sembrava strano a tutti che da Parigi avessi accettato quell’incarico. Il primo periodo è stato un po’ difficile, pensavo spesso alla Francia anche perché l’impatto con lo Zen è stato forte. Né colleghi né studenti, diciamo così, ti mettono a tuo agio all’inizio. Teoricamente il mio ruolo di sostegno era rivolto solamente a due ragazzini, ma in realtà sostenevo tutta la classe e anche il collega». 

Tra le primi inevitabili difficoltà e uno scenario radicalmente mutato («notavo anche le grate alle finestre e le porte tagliafuoco, mi è pure capitato di perdermi perchè davvero non conoscevo la zona»), Alessandra stringe i denti e va avanti. E pian piano comincia a conquistare la fiducia degli studenti. «Già i ragazzi non sono semplici, poi nelle periferie come lo Zen sono subito respingenti – aggiunge. Diffidenti lo sono i ragazzi ma anche i genitori. La prima domanda che ti fanno è “ma tu cu sì”, tendono subito a metterti in crisi. Ma quando capiscono che sei lì per loro possono diventare molto carini. Il ventaglio umano comunque è misto». 

Quando si pensa all’anno scolastico da poco trascorso, e a quello che sta per cominciare, inevitabilmente si traccia un bilancio: «Per me è stata un’esperienza formativa, in ogni caso ti tempra, tanto che io l’avevo pure reindicata in un’eventuale nuova supplenza annuale». Per poi riflettere più in generale su cosa vuol dire lavorare e vivere allo Zen: «E’ vero che i ragazzi sono difficili ma hanno tutte le ragioni per esserlo. Non c’è nessuno che crede in loro e quindi sono loro i primi a non credere in se stessi e nella possibilità di costruirsi un futuro. Difficilmente escono dal quartiere, quando lo fanno dicono “vado a Palermo”, la vita lì è un microcosmo con le sue regole e non regole. Purtroppo è un ghetto, ma è chiaro che la scuola per quanto possa spendersi da sola non ce la può fare se poi ai ragazzi non vengono offerti altri spiragli, altri contatti col mondo». 

Proprio l’istituto Falcone recentemente è stato interessato da un fatto di cronaca che ha fatto molto discutere, ovvero la decapitazione della statua dedicata al giudice. «Qualcuno degli studenti si è interrogato sul gesto –  conclude l’insegnante – e noi come docenti abbiamo deciso di rispondere con una lettera in cui abbiamo specificato che quello era un gesto di rottura e che a noi tutti piace costruire e riparare». 

Andrea Turco

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