Ancora una volta. La paura Mario la conosce. È diventata negli anni la sua fedele compagna. Custode silenziosa di timori antichi che venerdì sera di nuovo hanno preso corpo. A Parigi, lui, palermitano di Campofelice di Roccella, è arrivato nel dicembre del 2001. Venticinque anni, un diploma alberghiero in tasca e un progetto nel cassetto: diventare uno chef. In giro per l’Italia aveva coltivato il suo sogno, poi l’amore lo aveva portato oltre i confini. «Ci siamo lasciati – dice sorridendo -, capita, ma Parigi è diventata la mia seconda casa». Venerdì sera mentre sette attentati scuotevano la città Mario era al ristorante. Quello in cui lavora da anni, prima come apprendista e oggi come chef. «Il locale era pieno di clienti – racconta -, la piccola tv che tengo accesa in cucina ha annunciato un’edizione straordinaria, un fulmine a ciel sereno. Ascoltando quelle notizie, guardando quelle immagini non potevo crederci, sono rimasto impietrito. Oggi ho paura anche a uscire di casa».
A Parigi Mario si era trasferito a distanza di pochi mesi da quel tragico 11 settembre 2001. L’attentato alle Torri gemelle era ancora una ferita aperta. Uno spartiacque, perché nulla poteva essere più come prima. «Girando per strada, a ogni angolo c’era una camionetta della polizia o della gendarmeria» dice. Una presenza costante ed evidente, che, però, non rassicurava. «L’atmosfera era di sospetto nei confronti degli immigrati. Ricordo che la sera, uscendo a piedi dal ristorante, nei pressi del teatro dell’Operà, e andando verso casa in boulevard Haussmann distante poche centinaia di metri, incontravo moltissimi algerini, marocchini, tunisini, egiziani. Incrociandoli li guardavo solo di sfuggita. Indossavano tute da ginnastica e jeans, eppure il loro abbigliamento molto occidentale non riusciva a rassicurarmi».
Le notizie che arrivavano dall’America ritraevano gli attentatori delle Torri gemelle come degli insospettabili. «Musulmani provenienti dal nord Africa o dal Medioriente perfettamente integrati negli Stati Uniti – dice Mario -. Chiunque poteva essere una cellula dormiente, pronta a farsi esplodere o a ucciderti con un coltello, un fucile o una pistola». Il 7 gennaio scorso quando i terroristi hanno assaltato la sede di Charlie Hebdo in rue Nicolas-Appert quella paura, per anni silente, è riesplosa con tutta la sua forza. «Avevo portato alcuni amici venuti da Palermo a visitare la casa di Victor Hugo – ricorda – . Non potrò mai dimenticare quei momenti frenetici, la gente che scappava, le urla, le sirene della polizia e delle ambulanze. Non sapevamo cosa fosse successo davvero, qualcuno che correva nella nostra direzione ci raccontava di spari, di morti, di un attacco di terroristi e piangeva. Parole confuse».
«Non sapevamo dove andare – dice ancora -, se fosse meglio prendere la metro oppure proseguire a piedi. Eravamo terrorizzati. Siamo entrati in un negozio e la proprietaria ha abbassato la saracinesca. Dalla radio abbiamo appreso cosa era accaduto a qualche centinaio di metri da noi». Questa volta non era l’America. Non erano le immagini trasmesse in tv e le foto su internet. Il terrore aveva preso corpo a casa. «I nostri telefoni squillavano in continuazione – prosegue -. Dall’Italia le nostre famiglie ci aggiornavano sulla strage in diretta: “L’attentato è a circa cento metri da voi, ci sono gli attentatori armati in macchina, no sono a piedi… hanno ucciso ancora…”. Non saprei dire quanto tempo ho trascorso in quel negozio insieme ai miei amici. Ricordo solo a un cento punto che la polizia è arrivata e ci ha detto di andar via».
Venerdì sera la paura è tornata a bussare. «Ho visto di nuovo l’orrore negli occhi della gente, le lacrime, l’incredulità. Una follia impossibile da spiegare e tornando a casa un solo pensiero: poteva toccare a noi, saremmo potuti essere noi l’obiettivo dell’attentato. Nessuno è al sicuro. Nessuno».
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