«Quando fai il medico, sai che l’ammalato soffre in qualunque parte del mondo, in Sicilia come in Africa. L’approccio missionario non ha coordinate spazio-temporali». Lo spiega con semplicità Cristina Fazzi, dottoressa di Enna, da 21 anni in Zambia. La stessa semplicità che l’ha portata a trasferirsi in un altro continente quando, a 34 anni, ha deciso di sostituire una collega inviata per un progetto umanitario. All’inizio dovevano essere solo sei mesi. Che, senza sostituti all’orizzonte, sono diventati un anno e poi due. Fino a oggi: due associazioni più in là, e con diverse strutture mediche d’assistenza – per le madri e i bambini, passando per i profughi – costruite a partire dal cuore della foresta africana. Oggi Fazzi è la presidente di una ong zambiana, Twafwane Association, da poco collegata a un’associazione con sede a Enna, Jatu a.p.s., per rendere più semplice il legame con i donatori che la sostengono da anni: la sua città e la sua parrocchia. Una storia di solidarietà che è presto diventata un solido ponte tra due culture. «Le spose di Enna non fanno i sacchetti bianchi con i confetti, hanno le stoffe africane…», sorride fiera.
Cristina Fazzi non aveva mai pensato di andare in Africa. Oltre al suo lavoro come chirurga al Policlinico di Catania, faceva volontariato in una comunità di recupero per tossicodipendenti. «Quando sono arrivata, vent’anni fa, le condizioni erano tragiche – racconta a MeridioNews – Non c’erano corrente elettrica, acqua corrente e nemmeno il telefono. Sentivo i miei genitori una volta al mese, quando andavo in città». Il papà, medico anche lui, l’ha presa meglio: d’altronde lui stesso ha vissuto per 20 anni ad Asmara, in Eritrea. È la mamma a essere meno convinta, «pensava a sua figlia in un Paese percepito come un luogo di inciviltà». Oggi sono tra i suoi primi sostenitori: «Mio padre, novantenne, mi dice spesso che se fosse stato più giovane sarebbe venuto qui con me», ride Fazzi. Che torna in Sicilia, nella sua Enna, una volta all’anno. Spesso insieme a suo figlio, Joseph, 17 anni, adottato appena nato: «La madre è morta di parto. Quando lo hanno portato da me affinché lo curassi, pesava 800 grammi. Nella foresta non avevamo una incubatrice e così l’abbiamo creata bucando un cartone con dei bracieri attorno».
E l’adozione di Joseph è solo un altro dei traguardi raggiunti dalla dottoressa. Se in Zambia, infatti, dopo anni e centinaia di pagine di relazioni, la burocrazia ha fatto il suo corso, l’Italia si rifiutava di riconoscerle il suo status di mamma adottiva perché single. «Nonostante una legge degli anni ’80 che lo prevede – spiega Fazzi – Abbiamo dato battaglia legale e nel 2011 ce l’abbiamo fatta, sono la stata la prima single a vedere riconosciuta l’idoneità genitoriale accertata all’estero, creando un precedente che ha aiutato tante altre persone». Oggi, oltre a suo figlio, con la dottoressa vivono altri sette bambini, in affido esclusivo o condiviso. Un amore, quello per i più piccoli, che ha segnato fin dall’inizio il suo percorso in Zambia. «Ero l’unico medico in un territorio grande come mezza Sicilia e quindi ho fatto di tutto: la ginecologa, l’ortopedica e persino la becchina. Ma mi sono occupata per lo più di patologie materne e infantili, perché qui donne e bambini sono gli ultimi degli ultimi».
Concluso quel progetto sperimentale, Fazzi non se l’è sentita di mollare e tornare in Sicilia. «Il capo tribù locale mi ha donato 12 ettari di terra e ho creato la mia associazione. Lì abbiamo costruito il primo centro con sala parto, ambulatori per le visite prenatali, i controlli, le vaccinazioni, la profilassi per la malnutrizione. Negli anni, abbiamo creato delle sezioni distaccate e, con la clinica mobile, ci spostiamo anche di 20 chilometri per portare visite prenatali e vaccinazioni ovunque nella foresta». Sempre con un approccio che rispetti il contesto locale: «Se un bambino è denutrito, non avrebbe senso dare solo un’integrazione di cibo in clinica – spiega Fazzi – Abbiniamo anche l’educazione alimentare delle famiglie con prodotti del luogo, ad esempio il latte di soia anziché il latte in polvere e la ricetta per un omogeneizzato con pesce secco, più facilmente reperibile».
Anche il personale – medico e paramedico – è composto interamente da zambiani, che gestiscono le strutture quando sono ormai ben avviate: «Non ha senso portare medici o infermieri dall’Italia se qui ce ne sono già di bravissimi – dice la dottoressa – Bisogna avere l’umiltà di confrontarsi con loro e capire che la nostra è solo una cultura diversa, non superiore. Inoltre, costringere gli zambiani a dipendere da personale straniero per curarsi diventerebbe un’altra forma di schiavitù». Al Mayo-Mwana Project per la maternità sicura, adesso la dottoressa intende aggiungere un supporto specifico per i minori con patologie psichiatriche, per i quali non esiste neanche una struttura dedicata. «Ho visto ragazzi legati agli alberi o alla finestre. Spesso poi finiscono a delinquere e quindi in riformatorio. Aiutarli è una questione di giustizia», spiega. Entro l’anno spera di finire la costruzione di una struttura sanitaria con dieci posti – raddoppiabili in futuro – e una rete di professionisti specializzati. Il format sarà quello già sperimentato con le altre cliniche: il personale sarà inizialmente pagato dall’associazione e poi passerà a carico dello Stato zambiano, così da garantire la sopravvivenza del progetto e un reale passaggio delle competenze ai locali.
«Il popolo zambiano è estremamente accogliente, pacifico e tollerante: c’è sempre spazio per sedersi e discutere – racconta – L’Italia, purtroppo, è ancora piena di pregiudizi e arretrata per tante cose». Il pensiero corre inevitabile al tema immigrazione, su cui la dottoressa ha un’idea precisa. «Lavoro tutto il giorno nei compound, sobborghi poverissimi dove non c’è nemmeno l’acqua corrente. Quando dico che mi assenterò per andare ad aiutare nel campo profughi di Meheba, tutti sono felici, ritengono sia giusto perché lì ci sono persone che scappano dalla guerra. Non ho mai sentito dire “Prima gli zambiani”. Eppure anche quella gente non ha niente».
Una solidarietà che Cristina Fazzi riscontra però anche a Enna, la sua città, che in questi anni l’ha sostenuta con le donazioni. E che lei ricambia con un rapporto diretto: ogni sera, mette a letto i bambini e rendiconta, fattura e aggiorna i donatori uno per uno, personalmente. Come un’anziana signora di Pietraperzia che non sente ragioni: i soldi li consegna solo alla dottoressa o al parroco, niente mediatori. «Lei, per esempio, ha donato per costruire dei pozzi – racconta Fazzi – Io chiedo sempre in cosa si vuole donare, se per le mamme, i bambini, i profughi o le strutture. Bisogna essere consapevoli di come si usano i propri soldi, solo così si dà valore all’azione di donare».
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