Quasi tre anni dopo, lo sgombero del centro popolare occupato Experia di Catania tornerà in tribunale. Il 19 settembre, per ricominciare tutto da capo. Al centro della discussione, ancora una volta, le presunte violenze delle forze dell’ordine denunciate da rappresentanti istituzionali e da un avvocato presenti all‘alba del 30 ottobre 2009. Quando una squadra composta da polizia, carabinieri e guardia di finanza ha posto fine a 17 anni di lavoro dei volontari in uno dei quartieri più difficili di Catania, l’Antico corso. Tre anni e una sola certezza: il portone ormai chiuso dell’ex cinema Experia, in via Plebiscito. Ma intanto molto è cambiato: i bambini del quartiere sono tornati a giocare per strada; Alfredo Anzalone, ex vice questore vicario di Catania quel giorno responsabile dell’ordine pubblico, è stato promosso e trasferito; Valerio Marletta, uno dei denuncianti, allora consigliere provinciale di Rifondazione comunista, è oggi il giovane sindaco di Palagonia. Nulla si sa degli agenti implicati nel caso, in questi anni mai identificati. Se per loro non si dovesse mai arrivare a un processo, gli eventuali reati lesioni, percosse aggravate, abuso in atti d’ufficio – verrebbero prescritti in cinque anni. Due e mezzo in più nel caso in cui i fatti del 30 ottobre arrivassero in un’aula di tribunale.
Una storia che inizia il giorno prima, il 29 ottobre del 2009, quando la voce dello sgombero si è già diffusa in città. A rassicurare Pierpaolo Montalto, avvocato e segretario provinciale di Rifondazione Comunista, Valerio Marletta e Luca Cangemi, segretario regionale di Rifondazione e deputato nazionale, è lo stesso Anzalone. Che riceve i tre in Questura e promette «margini per avviare un dialogo» e «ampi spazi di mediazione», scrivono loro stessi. A maggiore garanzia, i tre chiedono la presenza al momento dello sgombero dell’avvocato Marco Rapisarda, che poi firmerà insieme a loro la denuncia. Perché, raccontano, all’alba del giorno dopo non ci sarebbe stata alcuna mediazione. Quando gli agenti arrivano, già in assetto antisommossa e con gli scudi parati, ad attenderli ci sono gli occupanti ma anche diverse mamme del quartiere. Le stesse che, ogni pomeriggio, portavano i propri figli a fare sport o doposcuola al centro. Il primo ad avvicinarsi al gruppo di forze dell’ordine è proprio l’avvocato Rapisarda: gli agenti, racconta, lo accolgono con un colpo di sfollagente in piena fronte, «seguito da ripetuti calci». Lo stesso trattamento riservato poco dopo a tutti i presenti. A poco serve a Valerio Marletta mostrare il suo tesserino da consigliere provinciale: «Questo te lo puoi ficcare nel culo», racconta di aver sentito da un poliziotto in borghese.
La loro denuncia arriva sul tavolo del procuratore Enzo Serpotta. Che ne chiede l’archiviazione. Perché gli autori dei reati contestati sono ignoti e perché, in ogni caso, non ci sarebbe stato nessun reato: le «condotte illecite» attribuite agli agenti, infatti, sarebbero state giustificate dalla resistenza degli occupanti. Che con calci, spintoni e insulti – «pezzi di merda, assassini», scrive Serpotta e protetti da una barricata avrebbero «messo a repentaglio l’incolumità» degli agenti. Racconti, questi, riferiti dalle stesse forze dell’ordine e riscontrabili, secondo il procuratore, in un video girato dagli stessi ma mai allegato agli atti. Immagini a cui si contrappongono quelle trasmesse da diversi tg locali che mostrano un’altra storia. E che i denuncianti chiedono vengano acquisite dal tribunale.
«Quello che io provo è vergogna», dice in aula il loro avvocato, Goffredo D’Antona. E la procura ci ripensa: rappresentata dall’aggiunto Carmelo Zuccaro, chiede la revoca dell’archiviazione. Tutto è nelle mani del giudice, Alfredo Gari. Che però non avrà mai il tempo di pronunciarsi. Muore per un infarto a marzo di quest’anno, dopo essere stato su tutti i giornali per «il primo errore in quarantanni di carriera», si era scusato lui stesso: una sentenza notificata in ritardo e 16 presunti mafiosi scarcerarti. Eppure, per la società civile catanese, l’inchiesta Experia era in mani coraggiose. «Ventanni fa fu il primo magistrato catanese a scrivere in una sentenza che Giuseppe Fava era stato assassinato dalla mafia per il suo impegno giornalistico contro i poteri della città», ricorda lamico Riccardo Orioles, giornalista de I Siciliani.
Adesso, a settembre, si ricomincia da capo. La posizione della procura etnea potrebbe cambiare ancora una volta. Ma non quella dei denuncianti: «In un paese democratico scrivono – la possibilità che operatori di Polizia perdano la testa, senza alcun motivo, e ricorrano alla violenza gratuita deve fare inorridire se non addirittura preoccupare».
[Foto di Giovanni Battaglia]
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