Alla fine della mia comunque fortunata battaglia contro il Covid-19, dialogando sulla cosa con un amico, lui auspicava che esternassi la mia esperienza affinché il mio vissuto potesse aiutare a convincere qualcuno a prendere seriamente la problematica pandemia. Sono discorsi di tre mesi fa, ma la mia innata riservatezza mi ha proibito di farlo fino ad oggi. E succede oggi non perché un altro amico non c’è più, non perché sono andate via tante persone conosciute e in buona salute, non perché oggi mi va di farlo, ma solo perché oggi è giusto farlo. Ed ecco il mio racconto.
Venerdi 16 ottobre tutto è iniziato con un leggero pizzico alla gola che via via è divenuto sempre più forte. La mattina, dopo una notte passata male con i primi stimoli di tosse, misuro la febbre ed è già 38. Vado subito in isolamento in un appartamento autonomo a casa dei miei e comincio a contattare il mio medico per le azioni del caso. Intanto la tosse diviene sempre più insistente e la febbre inizia a salire. Sento i miei amici medici e ognuno mi fornisce i suoi preziosi consigli che si traducono in tachipirina, antibiotico, acquisto saturimetro. Intanto chiamo l’Usca per il tampone e mi si dice che a breve sarebbero passati da casa.
La prima sera la tosse è devastante, profonda e tanto secca e la febbre altissima (sfioro i 40) ma la saturazione è ottima (lo sarà per tutto il decorso della malattia). Passo la notte da solo, in parte dormendo e misurando continuamente saturazione e febbre. Ttutto sommato la prima notte passa serena. Non so ancora di avere il Covid, non ho il classico sintomo della mancanza di gusto e olfatto e l’appetito è molto marcato (amplificato dalla cuoca che in questo caso è mia mamma, che lascia dietro la porta il cibo caldo per me).
Domenica la giornata clou della mia sofferenza fatico a contenere la tosse, mangio con gusto ma il quadro peggiora nonostante la saturazione risulti sempre ottima. La febbre sale e uso tachipirina per calmarla. Intorno alle 24 ho la febbre a 40,4, prendo la tachipirina e mi addormento ma quando mi risveglio, verso le 3 di notte, vivo quello che sarà l’unico momento di tutta la malattia in cui ho avuto paura. Sento un senso di mancanza d’aria (anche se il saturimetro indicava comunque 98), mi affaccio dalla finestra, respiro e mi calmo (forse era solo panico). Misuro la febbre: 40,2, non potevo prendere un’altra tachipirina e quindi inizio con le spugnature e vado avanti fino alle 7 del mattino. Ma la febbre, nonostante tutto, non scende sotto i 39,5. Dialogando con la mia dottoressa mi si inizia a dire che forse è il caso di rivolgersi all’ospedale, visto che ancora l’Usca non era riuscita a farmi il tampone.
Lunedi sera vado avanti spedito, appare anche il sangue nell’espettorato, probabilmente causato dalla irritazione del canale respiratorio a causa della tosse violenta e secca, il quadro comunque non peggiora. L’Usca mi fa il tampone, ma non si sa in che tempi fornirà l’esito. Appetito, gusto e olfatto sempre al top, unici sintomi febbre alta e tosse secca.
Martedì c’è la violenza psicologica, durata tutta il giorno, da parte della mia amica dottoressa la quale, (comunque dopo la partita di Champions Dynamo Kiev–Juve, finita poi 0-2 per la mia squadra) mi convince a chiamare l’autoambulanza utilizzando come molla il sangue nell’espettorato. Chiamo e vado. Tranquillo come sempre durante tutto il periodo di positività, mi appresto a salire sull’ambulanza tra lo stupore dei miei vicini e la disperazione dei miei cari! Ma io sapevo come stavo (non tanto male) ed ero probabilmente incosciente del rischio che stavo correndo. Per dovere di cronaca: non sapevo ancora di essere positivo al Covid-19.
Giunto al pronto soccorso, positivo emotivamente ma non certo felice di esserci, vengo accolto con grande gentilezza dal personale e subito tamponato, emogasato, radiografato all’addome: mi sembrava (al netto della brandina non adatta a persone oltre il metro e settanta) di essere nel miglior centro diagnostico del mondo nei pressi probabilmente di Boston e comunque non al Garibaldi Centro a Catania (pregiudizi stupidi di chi ignora la condizione della nostra sanità). Dopo due ore sapevo di essere positivo e di avere una polmonite interstiziale soprattutto al polmone sinistro. Febbre sempre altissima ma ora, come soggetto Covid, vengo trattato con antibiotico adatto, eparina, tachipirina e quant’altro.
Mercoledì pomeriggio vengo trasferito al Garibaldi Nesima in una stanza fantastica da dove potevo vedere l’Etna e con due compagni a modo. Lo stato d’animo non peggiora, anzi, nonostante lo sfogo e il racconto di un compagno di stanza del suo incubo, essendo prima migliorato e poi peggiorato di schianto con necessità di assumere ossigeno, io ero tranquillo: non stavo poi così male. I medici, guardandoli bene attraverso la coltre di bardaggi, bende e maschere antigas, li vedevo preoccupati, ma non realizzavo ancora. Saturavo bene ma la febbre era sempre alta e la tosse micidiale, mentre l’appetito, sempre eccezionale, induceva scorribande nei corridoi per accaparrarmi i pasti di chi, ahimè, non poteva consumarli perché operati alla trachea o intubati.
Ho più volte pensato al comportamento dei medici. Come dicevo, li vedevo preoccupati ma in cuor mio non ne comprendevo la ragione. Ora sì e lo esplicito. La parziale conoscenza della malattia da parte della comunità scientifica si manifesta con un’estrema attenzione al caso specifico e le ricadute (come quella del mio compagno di stanza) sono il motivo principale per cui fino all’ultimo sono stato controllato attentamente con emogas, analisi e quant’altro. Ci controllano come se fossimo malati terminali e ci accudiscono come se fossimo i loro figli. Sfido chiunque a dire il contrario. Nel reparto Malattie infettive dell’ospedale Garibaldi Nesima ho trovato dei medici attenti, professionali, gentili e preparati e ne ho tratto un messaggio di speranza per tutti noi che non facciamo che dire: «L’Italia fa schifo». Siamo invece un posto fantastico dove vivere, dove tutti abbiamo diritto a una cura anche se non abbiamo i soldi per potercelo permettere.
La febbre mi abbandona venerdì sera, assieme a gusto e olfatto per un paio di giorni, e anche la tosse migliora sensibilmente. La posizione a letto, dapprima con schienale inclinato a circa 35 gradi sull’orizzontale, scende ogni giorno di 10 gradi fin quando sarà orizzontale a tosse scemata. Parte la terapia con remdevisir (mi dicono abbia un costo spropositato, ma non mi verrà chiesto nemmeno un euro… miracoli della vilipesa sanità italiana). È un costante miglioramento, purtroppo in parte rovinato dall’effetto collaterale del farmaco che tende a provocare un aumento dei valori delle transaminasi e che ha determinato qualche giorno di permanenza in più in ospedale (valori poi rientrati rapidamente nella norma). Il 4 novembre venivo dimesso, cosciente di aver avuto la polmonite ma incosciente, fino a un po’ di tempo dopo, di ciò che ho realmente rischiato. Il tampone negativo è datato 11 novembre.
Che dire dunque di tutta questa esperienza? Come detto non ho mai percepito il reale pericolo che ho corso. Mi sentivo bene, saturavo bene anche all’apice della malattia, avevo solo quella sensazione di avere i medici troppo addosso rispetto alle condizioni che percepivo di me. Poi, parliamoci chiaro, non sono uno sportivo agonistico, ma mi muovo, faccio piscina, trekking. Non potevo mai pensare di stare davvero male. Ma la percezione delle cose cambia. Dopo qualche mese, la vita va avanti, scopro ciò che realmente succede con amici deceduti per Covid in una condizione fisica anche migliore della mia e realizzo ciò che inconsciamente avevo già capito osservando i medici. Anche un ragazzo forte e tutto sommato in forma come me può lasciarci le penne.
Per questo sto scrivendo. Io non sono nessuno, ma vorrei che tutti aveste chiari due concetti semplici semplici:
1. La malattia è sconosciuta e imprevedibile, quindi è meglio non prenderla;
2. Se i sintomi sono seri (febbre alta e tosse lo sono sempre), bisogna rivolgersi all’ospedale per fare una radiografia.
Troppe persone ci hanno lasciato perché le cose sono andate diversamente dalla mia esperienza, ma ora sono cosciente del fatto che, fino a prova contraria, anche io avrei potuto subire conseguenze peggiori se la mia amica dottoressa non mi avesse sfinito con le sue minacce e con la sua determinazione nel chiedermi di fare quella telefonata. Sento infatti di persone con crisi respiratorie severe che hanno paura di finire in ospedale, amici che muoiono senza aver fatto una toracica e mi si spezza il cuore perché forse era possibile fare qualcosa. Nel mio caso non avevo alcuna crisi respiratoria e, nonostante questo, avevo in corso una seria polmonite che mi avrebbe portato senz’altro a peggiorare.
Concludo con l’ultimo concetto: il Covid-19 non si esaurisce – mia personale idea – con la negativizzazione! Io non posso dire di essere quello di prima. Avverto infatti i cambiamenti di temperatura, odio il freddo (io che lo amavo), la profondità del respiro non è quella di prima ed è per questo che mi appresto a fare degli accertamenti. Perché la malattia è sconosciuta e gli effetti a lungo termine sono ancora un rebus.
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