Cous cous metafora d’integrazione tra rito e storia «Quello precotto? Tipico della tradizione africana»

Semola di grano duro, pesce da zuppa e aromi. Il cous cous, però, è anche molto altro: una tradizione, con i suoi racconti; una religione, con i suoi riti; una cultura, con la sua storia. Il cous cous è un popolo intero, e incocciare la semola diventa la metafora della fratellanza tra gli uomini. In questi giorni si tiene la manifestazione che ha il merito di aver portato il piatto alla ribalta internazionale, il Cous Cous Fest a San Vito Lo Capo; tuttavia, raramente ci si chiede dove affondi le radici la tradizione, non solo culinaria, del cous cous. A spiegarlo sono Piera Spagnolo, titolare e chef del ristorante Thaam di San Vito Lo Capo, e Santo Graziano, operatore culturale a tutto tondo della città trapanese. I due, però, prima vogliono fare chiarezza sulla polemica apparsa prima su La Stampa e, oggi, su La Sicilia, in merito al presunto scandalo del «cous cous precotto», fornito da uno degli sponsor della manifestazione, la Bia di Ferrara. «Nella nostra ricetta la semola è incocciata al momento e cotta al vapore ed è così che procediamo anche nelle Case del Festival; rientra nella tradizione africana, invece, il cous cous precotto, essiccato in settembre e poi reidratato al momento. La ragione è logica: immaginate una cottura di un’ora e mezza con gli strumenti reperibili nel deserto?».

Chiarita la polemica, la chef spiega che «esistono due scuole di pensiero sulle origini del cous cous in Sicilia. La prima le colloca ai tempi della dominazione araba, ma non è esatta: perché, allora, il piatto non era addirittura conosciuto a Palermo? Secondo un’altra teoria, che condivido, 200 anni fa i pescatori trapanesi lo importarono a seguito delle lunghe stanze in Tunisia. Nella capitale nordafricana, infatti, troviamo il ghetto siciliano con tanto di chiesa cattolica». In Africa il condimento coincide con tutto quello che si ha nella dispensa, qui invece prende il sapore della nostra risorsa più pregiata: il pesce. Scorfano, dentice, gallinella, coccia, improfumati con cannella, prezzemolo, aglio, cipolla, mandorle tostate e alloro. Fragranze che, nei giorni della festa, promanano da ogni angolo e invadono i vicoli di San Vito

«Se non hai mai respirato o assaggiato, a volte anche subìto, la Sicilia, come fai ad impersonare un soggetto di Pirandello? A rappresentare Martoglio?», è la domanda che Graziano pone ai giovani attori di teatro di San Vito. «Così – continua – anche il cous cous ha un preciso retroterra culturale, le cui fondamenta stanno nell’unione tra il popolo siculo e quello africano. Nella reciproca influenza e contaminazione». Incocciare la semola, ossia il movimento rotatorio delle mani che ne uniscono i granelli sotto un filo d’acqua, è il gesto generatore del piatto e, assieme, la metafora dell’integrazione. «I bouquet di gelsomino infilzato nella ferla essiccata, le cuscusiere (cioè i contenitori), il nostro vernacolo: tutti elementi emblematici del melting pot tra le due culture». Una religione con i suoi riti, si diceva. Chiediamo allo chef Filippo La Mantia, ospite della kermesse, quale sia il suo. «In cucina tutto è un rito, anche la preparazione di un panino; per mantenere le tradizioni si passa necessariamente attraverso un rituale, che però cambia di volta in volta». Le donne maghrebine pregano, i fimmini siciliane cantano: il risultato è sempre quell’affascinante alchimia tra materie prime che, adesso, incanta tutto il mondo. 

Gino Pira

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