La cupola di Cosa nostra non esiste più. L’organizzazione mafiosa è come un tronco di piramide, «impossibilitata a ricostituire un organismo di vertice deputato alla regolazione delle questioni più complesse e delicate». Arriva dalla relazione della Direzione investigativa antimafia, che analizza il secondo semestre del 2020, la risposta a quella che da anni è la domanda per antonomasia sulle questioni mafiose siciliane: dopo la morte di Totò Riina – avvenuta nel novembre del 2017 – chi è adesso, se c’è, il capo dei capi? Un interrogativo su cui anche investigatori, studiosi ed esperti del fenomeno mafioso si sono spaccati. Da una parte, chi aveva intuito che «Cosa nostra non ha più bisogno di un leader unico», dall’altra chi pensava che «la cupola tornerà a riunirsi per scegliere il nuovo capo».
Non solo e non tanto quello della primula rossa Matteo Messina Denaro – il superlatitante ricercato dal 1993 che tutti vanno avanti a cercare, con un cerchio che continua a stringersi, imbattendosi anche in clamorosi scambi di persona -, i nomi dei possibili eredi del padrino, negli anni, sono stati diversi e tutti poco convincenti. A partire da Settimino Mineo. Un nome che, a ragione, ai più non dirà nulla. Condannato per mafia già ai tempi del Maxiprocesso, del gioielliere ultraottantenne si è tornato a parlare quando la Dda di Palermo lo ha arrestato descrivendolo come «l’erede designato di Totò Riina». Un’affermazione accolta con qualche perplessità anche da alcuni degli addetti ai lavori.
Ad aggiunge un nuovo tassello al dibattito sull’eredità del padrino arriva adesso l’analisi della Dia. «Lo scenario mafioso resta caratterizzato dalla ricerca di assetti più solidi nei rapporti di forza tra famiglie e mandamenti», si legge nella relazione che è già stata presentata al Parlamento. Ma ci sono delle differenze geografiche: nella parte occidentale dell’Isola ci sono ancora famiglie strutturate in modo più rigido e ancorate al territorio di riferimento, nell’area centro-orientale invece i sodali hanno assunto contorni più fluidi e flessibili. «Cosa nostra siciliana, privata degli uomini d’onore di spicco, si è trovata costretta a rimodulare i propri schemi decisionali – ha dichiarato il direttore centrale anticrimine Francesco Messina – aderendo a un processo più orizzontale e concertato. In altre parole, si è orientata verso la ricerca di una maggiore interazione tra le varie articolazioni provinciali».
In questa «impossibilità a ricostruire un organismo di vertice», ad assumere un particolare rilievo è stata la Stidda. Nata nella fascia costiera della provincia di Caltanissetta per contrapposizione a Cosa nostra, oggi (dopo avere ampliato la propria presenza e il proprio raggio d’azione anche all’Agrigentino e al Ragusano, ndr) stringe con questa «alleanze funzionali al perseguimento di specifici business criminali». In questo nuovo assetto di mafia senza cupola, Cosa nostra ha tutto da imparare dalla Stidda che da sempre è caratterizzata da una struttura orizzontale fatta di gruppi autonomi che convivono basandosi su accordi per la spartizione degli affari illeciti. Sarà questa peculiarità ad avere consentito, proprio in questo periodo storico, agli stiddari di fare il «salto di qualità». Da un disordinato gruppo dedito a reati predatori, la Stidda è diventata un’organizzazione capace di infiltrarsi perfino nel tessuto economico-imprenditoriale del Nord Italia.
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