«Il mondo non sa cosa sia davvero la mafia. Spesso si pensa ai mafiosi come persone simili a noi, o al massimo come a semplici delinquenti. Non è così: in realtà il mafioso è di un’altra categoria, dal punto di vista psichico diciamo che è una non persona». Girolamo Lo Verso da 24 anni guida il gruppo di ricerca sulla psicologia del fenomeno mafioso dell’Università di Palermo. Dall’indomani della strage di Capaci lui, insieme ad altri docenti e a diversi studenti, prova ad analizzare Cosa Nostra e chi vi entra in contatto (vittime, pentiti, poliziotti, magistrati), da un punto di vista psicoanalitico. «Lo ha fatto Falcone per primo – spiega -, aveva chiaro che l’altro va considerato come lui stesso si considera. E fu grazie a questo metodo che riuscì a conquistare la fiducia del pentito Buscetta. Falcone capì che Buscetta si considerava un generale, un uomo d’onore e così lo trattò, non da misero delinquente».
Il mafioso visto con le lenti della psicologia appare come «una non persona». «Quando uccide non prova emozioni – spiega il professore -, lo fa con indifferenza, non ci pensa dopo, non fa incubi, sembra che i delitti non lascino neanche tracce psichiche inconsce, perché a sua volta considera le sue vittime come non persone. Per certi aspetti il mafioso è un fondamentalista, assomiglia a una categoria psichica che è la stessa del nazismo o dello stalinismo. Venendo a un confronto più recente, dal punto di vista psicologico è peggio dello jihadista che prova odio, rabbia, che vuole vendicarsi dell’Occidente cristiano. Il mafioso non prova alcun sentimento, neanche negativo. E pure l’immagine del mafioso coraggioso è una balla perché spara a tradimento, preme un detonatore da 150 metri, uccide persone disarmate, intimorisce un commerciante ma se questo dà segnali di insofferenza o lo denuncia, il mafioso non ci va più».
L’approccio di Lo Verso parte dall’intuito del giudice Falcone e finisce per essere elemento utile anche per il lavoro dei magistrati che tuttora combattono Cosa Nostra, come il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, la procuratrice aggiunta Teresa Principato e il presidente della corte d’Appello Gioacchino Natoli. «Importanti – sottolinea Lo Verso – sono anche i dati raccolti dai collaboratori di giustizia e dai figli di mafiosi che negli anni di crisi si sono rivolti a psicologi. Ricordo l’incontro con uno dei pentiti della famiglia Marchese: era pieno luglio, lui indossava un cappellino di lana in testa. Non dormiva, prendeva ansiolitici, non parlava con nessuno nella località protetta per paura di essere scoperto. Mi dice: “Però ho un cane che mi fa compagnia”». Un racconto che dimostra «come il mafioso non abbia un io, ma solo un noi, il suo io è mafia. E quando rimane solo con il suo io, a cui non è mai stato abituato, si disintegra perché quasi sempre è cresciuto in una famiglia di mafia, già concepito per essere un futuro mafioso. Sono rarissime le eccezioni – precisa il docente – e si verificano quando già in famiglia c’è qualche incrinatura, ad esempio come Peppino Impastato, in quel caso la madre Felicia non apparteneva a una famiglia mafiosa».
Un ragionamento che sta alla base, ad esempio, della decisione del tribunale per i minori di Reggio Calabria di allontanare i figli di famiglie mafiose, minorenni ma già avviati alla violenza. «È chiaro che questi provvedimenti sono sempre basati sulla legge – commenta Lo Verso, che proprio su questo tema sarà sentito dalla commissione nazionale Antimafia – non si toglie un bambino dalla famiglia solo perché quest’ultima è ‘ndranghetista, ma è altrettanto chiaro che il cuore di questo problema è proprio psicologico. Più una persona è circondata dalla mafia, più la assorbe, più mafia ha dentro, più è difficile portare avanti un lavoro psicoanalitico per aiutarla a cambiare. È quello che sono riusciti a fare don Pino Puglisi coi suoi ragazzi, Paolo Borsellino con Rita Atria. È quello che provano a fare anche Addiopizzo o Libero futuro: trasformare la mentalità».
Nel gruppo di lavoro di Lo Verso si inserisce anche la ricerca di Nicola Pollina, laureato in Psicologia e componente di Libera Trapani, che ha incentrato la sua tesi proprio sulla provincia che ha dato i natali al latitante Matteo Messina Denaro. «Due giorni di incontri e discussioni di gruppo con chi vive quel territorio – spiega – hanno confermato la specificità di Cosa Nostra trapanese. Una presenza invisibile, sommersa, che non sembra farsi riconoscere. Anche se, in realtà, poi, sono emersi diversi racconti legati alla violenza, all’oppressione, alla prepotenza mafiosa».
È possibile estendere l’analisi psicologica anche al tentativo di decifrare cosa sta accadendo dall’altra parte della barricata, nel frastagliato universo dell’antimafia dove sono crollati alcuni simboli? «Certo, esiste uno psichismo dell’antimafia – risponde il professore Lo Verso – Direi che possiamo individuarne tre tipi: uno equilibrato, comune a tanti magistrati, associazioni e singoli che combattono con metodo. Poi ci sono quelli che hanno enormi meriti e che però trovano in questo un’identità. O perché hanno un parente ucciso, o perché si sentono giustamente dalla parte del bene. Si innesca così una sorta di narcisismo che in un certo senso è necessario per affrontare certe durezze della vita, l’ansia di testimoniare perennemente di essere una vittima, ma anche questa è una categoria nobile. Infine c’è la categoria dei furbi che però è molto piccola: vi appartengono quelli che non erano nessuno e che improvvisamente diventano testimonial».
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