Quasi quattro ore di requisitoria spezzata da due pause di pochi secondi. Alla fine la richiesta della procuratrice generale Miriam Cantone non ammette fraintendimenti. Mario Ciancio Sanfilippo ha «intrattenuto per decenni stretti rapporti con la mafia», un periodo lunghissimo in cui la linea editoriale del giornale La Sicilia sarebbe stata «piegata ai suoi interessi». Sono questi alcuni dei passaggi chiave dell’ultima udienza che ha avuto come protagonista l’imprenditore ex monopolista dell’informazione. Chiamato in causa davanti al tribunale misure di prevenzione per il secondo atto della vicenda che, a settembre 2018, ha portato al sequestro e alla relativa confisca di beni per un valore non inferiore a 150 milioni di euro. Contestualmente resta aperto il fronte del processo penale, in cui Ciancio è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ad ascoltare le accuse non c’è l’imprenditore. Al suo posto gli avvocati Carmelo Peluso e Francesco Colotti. «Abbiamo 12 collabori di giustizia tutti credibili e coerenti. Oltre a essere provenienti da diverse province della Sicilia», spiega la pg alla corte presieduta dalla giudice Dorotea Quartararo, affiancata da Antongiulio Maggiore e Antonino Marcello. L’ultimo dei pentiti a parlare di Ciancio è stato Francesco Squillaci. Un passato da killer di Cosa nostra e un presente da collaboratore di giustizia. In mezzo alcune dichiarazioni, già messe a verbale nel 2014 quando non si era ancora pentito, in cui raccontava di un falso attentato organizzato all’interno di una villa di Ciancio, nel quartiere Canalicchio. «Tutti fatti riscontrati – precisa Cantone -. Come si può vedere dagli accertamenti tecnici fatti all’epoca dei fatti».
Un capitolo a parte è quello che riguarda la linea editoriale del giornale La Sicilia. Di cui Ciancio è stato ininterrottamente direttore dal 1976 al 2018. Quarantadue anni di potere in cui è stato trattato l’argomento mafia a Catania. «Non è stato dato risalto ad alcune cose», continua Cantone, riferendosi alla mancata pubblicazione del necrologio per la morte del commissario Beppe Montana e al messaggio in cui si rinnovava «ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori». «Ciancio piegava la linea del giornale ai suoi interessi e quello è stato un caso di vera e propria censura», continua l’accusa. Per la procura generale sul giornale la linea sarebbe stata diversa quando di mezzo ci sarebbero stati alcuni esponenti della famiglia mafiosa etnea dei Santapaola-Ercolano. Riferendosi a una missiva del boss Nitto Santapaola, «in cui perdonava chi aveva ucciso sua moglie Carmela Minniti», e a quella del figlio Vincenzo. Reo di essere stato in grado di farsi pubblicare una lettera, senza nessuna autorizzazione del tribunale, mentre si trovava sottoposto al regime del carcere duro.
La prima interruzione durante la requisitoria arriva alle 14. Passate due ore e mezza dall’inizio. Pochi secondi, utili alla presidente della corte per richiamare uno scambio di battute, bisbigliato, tra l’avvocato Peluso e il magistrato Antonio Fanara. Forse intenti a commentare un passaggio in cui Cantone aveva fatto riferimento a Salvatore Urso. Ex parlamentare democristiano con un passato da sindaco di Aci Sant’Antonio. Ma anche colui che avrebbe venduto a Ciancio i terreni sui quali si sarebbe dovuto costruire il villaggio Xirumi per i soldati americani. Opera mai realizzata ma finita sia al centro del processo Ciancio che in quello che vede alla sbarra l’ex presidente della Sicilia Raffaele Lombardo. «Il nome di Urso – prosegue Cantone – compare anche nelle carte del processo a Giulio Andreotti. Per la sua presenza a un incontro che quest’ultimo avrebbe avuto all’hotel Nettuno con Nitto Santapaola».
Quando la fine della requisitoria sembra ancora un miraggio c’è tempo per una nuova sosta. Dovuta a un problema al microfono. «È riuscita a farlo collassare», ironizza la presidente della corte. Da passare in rassegna ci sono ancora tutti gli affari legati all’imprenditore. Oltre agli alloggi per i soldati nel territorio del Comune di Lentini viene trattata la vicenda del Pua (piano urbanistico attuativo) e dei centri commerciali Tenutella, Mito, Porte di Catania e Sicilia Outlet fashion village. Tutte operazioni in cui Ciancio viene bollato dall’accusa come vero e proprio dominus. Spesso intento a interfacciarsi direttamente con la pubblica amministrazione. Come nel caso del Pua. Investimento da circa 300 milioni di euro per realizzare un centro polifunzionale con alberghi, sale congressi, campi da golf, parco divertimento e un grande acquario. «Ciancio aveva stipulato dei preliminari di vendita per i suoi 54 ettari di terreno sui quali doveva sorgere il progetto», spiega l’accusa. A doverlo realizzare la società Stella polare, dell’imprenditore veneto Renzo Bissoli. «Che era infiltrata dalla mafia così come tutto questo affare».
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