È diventata definitiva la condanna a 25 anni di carcere per l’82enne Salvatore Di Grazia, accusato di avere ucciso la moglie di 72 anni Mariella Cimò e di averne poi fatto sparire il corpo. La corte di Cassazione ha rigetto il ricorso che avevano presentato i legali dell’uomo contro la sentenza della corte d’Appello di Catania che, l’8 luglio del 2019, aveva confermato quella di primo grado che era stata emessa il 7 aprile del 2017. L’uomo ha sempre sostenuto la tesi dell’allontanamento volontario della moglie, dichiarandosi innocente.
La donna, che è scomparsa dalla villa di famiglia di San Gregorio di Catania il 25 agosto del 2011, non è mai stata ritrovata. Il marito, con cui era sposata da 43 anni, aveva presentato la denuncia solo il 5 settembre successivo. Stando a quanto emerso durante i processi, tra i due coniugi negli ultimi periodi ci sarebbero stati dei contrasti legati soprattutto alla gestione di un autolavaggio self service ad Aci Sant’Antonio. Un’attività di proprietà della donna nella quale lavorava il marito.
Lei avrebbe voluto vendere ma lui si sarebbe opposto perché, secondo quanto emerso dalle indagini coordinate dal pubblico ministero Angelo Busacca, in quegli uffici avrebbe incontrato le donne con cui intratteneva relazioni extraconiugali. «Può darsi – ha raccontato Di Grazie durante un’udienza – che qualche volta portai delle donne nell’appartamento antistante l’autolavaggio. Gli incontri avvennero prima durante e dopo la scomparsa di mia moglie».
Fondamentali per gli inquirenti sono state le immagini di alcune telecamere di videosorveglianza – che non avrebbero ripreso mai la donna uscire dalla villetta – e diverse intercettazioni ambientali. Il 2 novembre del 2011 per esempio a quasi due mesi dalla denuncia della scomparsa, Di Grazia risponde a una persona – non identificata – che chiede sul suo stato d’animo dicendo che «non iniziava il periodo di lutto ma la campagna della vagina».
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