Concorso esterno in associazione mafiosa Che cos’è e perché è difficile provarlo

Un reato facile da capire, ma difficile da provare. E’ il concorso esterno in associazione mafiosa. Un’accusa discussa e non solo nelle aule dei tribunali, perché spesso riguarda politici e rappresentanti delle istituzioni, coinvolti in scandali e processi. Lunghi, tortuosi e dalle alterne sentenze. L’ultimo è il presidente Mpa della regione siciliana Raffaele Lombardo, per cui il gip di Catania Luigi Barone ha disposto l’imputazione coatta. Poche settimane prima il senatore Pdl Marcello Dell’Utri: il suo processo è da rifare, ha stabilito una sentenza della corte di Cassazione di cui ancora però non si conoscono le motivazioni. Soggetti accusati di essere vicini alle mafie, pur non facendone parte. Vicinanza che non sempre porta a una condanna. Perché? Per capirlo, CTzen vi propone una guida, realizzata grazie alla consulenza di Roberta D’Aquino, avvocato catanese e dottoranda in storia del diritto penale.

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Prima degli anni ’80 la mafia non esiste, nemmeno nelle aule dei tribunali. E’ il sangue, soprattutto dopo l’omicidio del prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, a portare i legislatori a inserire nel codice penale italiano l’articolo 416 bis: associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di capi, promotori e associati. Ma non basta. Lo intuiscono presto i magistrati del pool antimafia di Palermo e lo sa bene Giovanni Falcone, davanti al silenzio del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta sulla cosiddetta zona grigia: politici e imprenditori soprattutto, più in generale qualunque professionista favorisca la criminalità organizzata pur non essendone associato. «C’è poi, signor giudice, un terzo livello. Ma di cui non parlerò e non intendo parlare. Altrimenti finiremmo entrambi in manicomio», spiega il pentito. Un sistema di collusioni politiche e istituzionali – l’embrione di quello che sarebbe poi diventato il mistero della presunta trattativa tra Stato e mafia – da colpire con uno strumento nuovo: il concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che non esiste sul codice, ma nasce dalla combinazione di due norme: l’articolo 416 bis e il 110, che disciplina il generico concorso di persone in un reato.  A teorizzarlo per la prima volta è proprio Falcone che, nell’ordinanza relativa al terzo maxi processo, si pone «il problema di ipotizzare il delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato».

Un reato anomalo: spesso contestato dai puristi del diritto perché privo di limiti chiari di colpevolezza. Non codificato, ma che esiste. E che va prendendo forma in base alle sentenze emesse. Soprattutto quelle, granitiche, della Cassazione a sezioni unite. Era il 1994 quando la corte definisce il concorrente esterno come  «un soggetto che non vuole far parte dell’associazione né è chiamato da essa a farne parte», ma a cui le mafie chiedono «un contributo temporaneo utile a fare superare il momento di crisi». Una definizione che andrà già restringendosi nel 2003, con la sentenza nei confronti di Corrado Carnevale. Presidente della prima sezione penale della Suprema corte di Cassazione, lo chiamavano l’ammazza sentenze. Una veloce e brillante carriera nella magistratura, il giudice è però passato alla storia per aver annullato con il suo giudizio circa cinquecento sentenze relative a fatti di mafia. Tra questi, gli ergastoli a Michele e Salvatore Greco e l’arresto al figlio del primo, Giuseppe. Un comportamento sospetto che ha portato la corte d’Appello a condannare Carnevale per concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza epocale, ribaltata però in Cassazione. Secondo la sentenza, infatti, «il concorrente esterno, a differenza del partecipe, è privo di volontà di far parte dell’associazione, non è stabilmente inserito, ma fornisce all’associazione un contributo specifico, volontario e consapevole». Tre aggettivi, quelli finali, che restringono il senso della precedente sentenza del 1994, introducendo la necessità di provare un rapporto di causa ed effetto tra i contributo e un’effettiva conservazione o il rafforzamento dell’organizzazione mafiosa. Un contributo materiale e non solo promesso, aggiunge nel 2005 la sentenza nei confronti dell’ex senatore e ministro Dc passato all’Udc, Calogero Mannino. Inizialmente condannato in Appello per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo un primo annullamento con rinvio da parte della Cassazione, il secondo Appello decide per l’assoluzione, poi confermata in ultimo grado. «Un accordo, per definizione, è l’incontro di volontà di due soggetti», dicono i giudici. E, nel caso di Mannino, a mancare era la prova del suo assenso a fornire alla mafia una contropartita per i favori elettorali ricevuti dal politico.

Restringimenti che spesso portano i pubblici ministeri a derubricare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa in altri tipi di accuse. Come nel caso dell’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, condannato per favoreggiamento con l’aggravante mafiosa. Ma non per concorso esterno, possibilità che ha portato l’ex governatore a un celebre festeggiamento con cannoli per averla evitata. Il favoreggiamento punisce la condotta di chi, dopo la commissione di un delitto, aiuta qualcuno a eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche. Se il reato commesso – e connesso – risponde al capo 416 bis, la pena è aumentata di due anni. Cuffaro avrebbe quindi sì aiutato un mafioso, ma non in quanto mafioso. Il contributo sarebbe stato infatti rivolto a un singolo e non in qualità di associato. Condizione che non permette di far scattare l’accusa di concorso esterno.

Vicende complesse, che spesso si fondono con le storie e le carriere dei protagonisti. Ma che non sempre portano ad assoluzioni. Come nel caso di Bruno Contrada, ex dirigente del Sisde (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, servizi segreti italiani ndr) arrestato per concorso esterno e condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. L’assoluzione in Appello viene rispedita indietro dalla Cassazione, che invece conferma l’esito del secondo processo: una nuova condanna a dieci anni. «Per avere contribuito agli scopi e alle attività criminali di Cosa Nostra fornendo notizie riservate – scrivono i giudici – riguardanti indagini e operazioni di polizia che dovevano essere svolte nei confronti di appartenenti all’associazione criminale».

 

[Foto di ste 71]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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