«Con le trivelle rischiamo di dire addio al Mediterraneo» Gianni Battaglia (Pd) e la Regione siciliana soccombente

«Sulle trivelle che rischiano di sconquassare il mare della Sicilia sta succedendo un fatto strano che non mi sembra sia stato oggetto di grande attenzione da parte della stampa.  Siamo davanti a un Governo nazionale che, con una legge ordinaria, sta avocando a sé le competenze. Tutto questo ancor prima di aver modificato la Costituzione».

Comincia così la chiacchierata con Giovanni Battaglia, già parlamentare di Sala d’Ercole, già assessore regionale, già parlamentare nazionale della Sinistra siciliana. Battaglia è ragusano. A Ragusa i problemi legati al petrolio li conoscono bene. E’ nel mare di Ragusa che Enrico Mattei, negli anni ’50 del secolo passato, trovò i primi giacimenti di petrolio. Ed è in provincia di Ragusa che, da quasi cinquant’anni, si estrae petrolio da pozzi realizzati sulla terraferma. 

Ed è proprio Battaglia che ci fa notare un particolare che, in questa storia, è fondamentale. 

«Nel Decreto Sblocca Italia – ci dice l’esponente della Sinistra, che oggi milita nel Pd – c’è una norma che si occupa specificatamente di idrocarburi. Ricordo che lo Stato, in materia di ricerca e coltivazione di idrocarburi, ha potestà concorrente. Ebbene, con lo Sblocca Italia lo Stato si attribuisce queste competenze». 

Scusi, ma questo non deve essere fatto con una legge costituzionale?

«Certo. Infatti ho già detto che il Governo Renzi ha anticipato con legge ordinaria un passaggio che deve essere previsto da una norma costituzionale».

E si può fare?

«Sì. Però in questo caso la Regione siciliana ha uno strumento per difendersi». 

La Corte Costituzionale. 

«Esattamente. Il presidente della Regione siciliana avrebbe dovuto sollevare subito la questione davanti la Corte Costituzionale».

Cosa che l’attuale presidente della Regione, Rosario Crocetta, non ha fatto. La Regione siciliana si è arresa senza combattere. 

«Mi pare di capire che le cose stanno così».

Lei, da uomo politico che ha operato in provincia di Ragusa, dove le questioni legate al petrolio sono sempre state oggetto di dibattito, cosa pensa di questa storia delle trivelle che potrebbero sconvolgere il Mediterraneo?

«Ne penso molto male, come tutte le persone di buon senso. In linea generale non sono favorevole alla ricerca e alla coltivazione degli idrocarburi. L’impatto sul territorio non è mai positivo. Però bisogna operare una distinzione».

Ovvero?

«Per ciò che riguarda le perforazioni in terraferma – che ribadisco: non mi piacciono – debbo ammettere che la tecnologia ha raggiunto un livello di sicurezza accettabile. Nella mia provincia ci sono pozzi di petrolio che operano da decenni. E non ne avvertiamo nemmeno la presenza. Anche perché chi gestisce un pozzo di petrolio sulla terraferma ha tutto l’interesse, ad esempio, a non creare commistioni con l’acqua. Perché l’eventuale inquinamento di una falda idrica comporterebbe la perdita dello stesso pozzo petrolifero. In mare, invece, il discorso è completamente diverso». 

E’ più pericoloso?

«E’ molto più pericoloso. E, in generale, l’impatto sull’ambiente marino è tremendo. Al netto di incidenti, ai quali non voglio nemmeno pensare, gli effetti sull’ecosistema marino sono tanti: e sono tutti negativi, soprattutto sulla fauna. Già solo per questo andrebbero evitati. Ma il pericolo maggiore, questo lo sanno tutti, è legato a possibili incidenti».

Che sarebbero devastanti.

«Purtroppo sì. E mi meraviglio che persone chiamate a rivestire ruoli di responsabilità non si rendano conto dei pericoli legati alla presenza delle trivelle in mare. Negli ultimi vent’anni hanno sempre detto che le tecnologie erano sicure. E si è visto quello che è successo».

Si riferisce alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

«Esattamente. Avete presente quello che è successo?».

Purtroppo sì. L’incidente al pozzo Macondo. Lo sversamento di petrolio in mare è durato oltre cento giorni. Ancora oggi ci sono distese immense di petrolio che galleggiano al largo della Florida e dell’Alabama. 

«Ricordo che il Mediterraneo è un mare chiuso. Se si dovesse verificare un incidente simile a quello accaduto nel Golfo del Messico potremmo dire addio al nostro mare. A tutto il Mediterraneo. Altro che pesca artigianale e d’altura, altro che Tonno Rosso del Mediterraneo! La marea nera inghiottirebbe tutto e tutti. L’ecosistema del nostro mare verrebbe compromesso. La questione non riguarda solo noi, ma tutti i Paesi che si affacciano nel Mediterraneo. Ribadisco: non riesco a capire come persone chiamate a ruoli di responsabilità non si rendano conto dei rischi che il nostro mare correrebbe con una proliferazione incontrollata dei permessi di ricerca e di coltivazione di idrocarburi. Detto questo, però, un ragionamento politico va fatto».

Dica.

«Dobbiamo decidere su quali energia puntare. L’energia eolica non ci piace perché le pale devastano il paesaggio. Il fotovoltaico non ci piace perché consuma troppo territorio. Insomma, dobbiamo decidere. E la decisione di riempire il Mediterraneo di pozzi di petrolio è la più irrazionale di tutte».  

Tra l’altro, negli anni ’50 Mattei e i suoi uomini decisero di non utilizzare il petrolio del mare di Ragusa perché si trovava a grandi profondità. Allora, dicevano, era troppo costoso e rischioso. Lo stesso ragionamento lo faceva, alla fine degli anni ’80, l’allora presidente della Regione, Rino Nicolosi.

«Non mi va di pensare al petrolio che giace nei fondali marini del Mediterraneo. Mi auguro un ripensamento. Perché i rischi che correremmo sono di gran lunga maggiori dei benefici economici». 

Giulio Ambrosetti

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