Con il 2018 vanno via negozi storici e botteghe  Da Gian Flo a Sartoria Maqueda: «Pochi servizi»

L’ultima a chiudere quest’anno è stata la storica caffetteria Gian Flo. Ma sono diversi i nomi illustri di attività che hanno abbassato la saracinesca durante questo 2018 che sta per finire. Le cause che sono state individuate alla base di questo fenomeno sono state le più diverse nel corso dei mesi: Ztl, cantieri aperti e ancora in piedi, aree pedonali vecchie e nuove. E ancora movida, apertura a pioggia di aziende del settore Food&Beverage. Alcuni titolari se ne sono andati in altre zone, hanno abbandonato il centro storico nel quale le loro attività sono nate e dove hanno visto fiorire i loro anni migliori. Altri sono riusciti a reinventarsi. 

C’è poi chi, come la titolare della Sartoria Maqueda, ha dedicato alla zona dove hanno mosso i primi passi anche una lettera struggente, piena di speranze per il futuro e amarezza. «Cara via Maqueda, ho riflettuto a lungo e credo che dopo dieci anni di convivenza una spiegazione te la devo – scriveva Alice Salmeri –  Ci sono tante ragioni per cui ti lascio ma penso che la prima, la più sincera sia una: dopo tanti anni al tuo fianco per contribuire alla tua bellezza e per partecipare con te al rinnovamento culturale della nostra città, mi dispiace dirtelo, ma mi hai deluso».

Altri, come Flavia, proprietaria della storica merceria Petrì di piazza Sant’Anna, hanno scelto il silenzio, e hanno preferito andare via in punta di piedi, con gli occhi lucidi e un bagaglio prezioso di ricordi, senza però rinunciare a togliersi qualche sassolino dalla scarpa: «Mio padre ha aperto la merceria negli anni Cinquanta, e adesso sto per chiudere tutto e andare via. Mi trasferisco nella zona dello stadio. Prima di prendere determinate decisioni, dalla differenziata fino alle aree pedonali sulle quali sono pienamente d’accordo, bisogna fornire servizi adeguati, cosa che non è stata fatta». Adesso, una volta affittato, pare che il locale dovrebbe diventare, come tutti gli altri della zona, un locale della movida. Ma la lista non finisce qui. Tra gli altri ci sono anche Cibus, in via Amari, dove tra gli scaffali della merce prelibata, spuntavano dei tavolini sui quali si poteva consumare un pasto veloce ma di qualità. Intanto potevi fare anche la spesa. E l’antico negozio di scarpe Soldano in via Ruggero Settimo. 

«La chiusura di negozi che hanno caratterizzato la storia di Palermo lascia senza dubbio una ferita dolorosa – afferma Mario Attinasi, presidente di Confesercenti Palermo – ma è anche vero che certe dinamiche fanno parte anche del ciclo economico di una attività. Tanti negozi del centro sono riusciti a sopravvivere reinventandosi e aprendo alle innovazioni del settore, altre purtroppo non sono riuscite in questo processo: di questo, però, non bisogna darne una colpa ai gestori. Le soluzioni? Quelle che da tempo proponiamo: maggiori servizi nell’area del centro storico, un bus navetta che sia da stimolo per lo shopping in centro e agevolazioni per i piccoli esercenti».

Come si diceva quindi sono ancora un numero imprecisato le attività sopravvissute negli anni, superando guerre mondiali, crisi e riprese economiche per arrivare, anche rinnovandosi, ai giorni nostri. Confcommercio per questo ha lanciato il Registro delle Botteghe Storiche, insieme alla Fondazione Salvare Palermo, per fare un censimento di queste ultime. «Ce la stiamo mettendo tutta – dice la presidente di Confcommercio Palermo Patrizia Di Dio – è chiaro però che mancano dei progetti sul centro storico, sulle imprese. Sia che si tratti di grandi investitori o piccole realtà commerciali e artigianali, tutte rappresentano la stessa immagine identitaria di una città. Una vetrina che chiude è un danno per tutta la collettività e per la nostra memoria storica, che è fatta anche di imprenditoria». 

Il primo avviso di Confcommercio Palermo ha visto, a giugno di quest’anno, il riconoscimento su Palermo di 50 Negozi Storici e altre candidature continuano ad arrivare. «Per noi le attività che rimangono in piedi sono monumenti vivi – conclude Di Dio –  che abbiamo il dovere di mettere in sicurezza. Da soli non ce la possiamo fare. Servono piani di valorizzazione, dare visibilità anche grazie all’uso di nuovi strumenti digitali, per fare in modo che vengano intercettati lungo i percorsi turistici. Però questa è solo una minima parte, il tema resta l’inerzia della politica nella cui agenda non vediamo scritta da nessuna parte la voce “impresa”».

Stefania Brusca

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