«Io a Silvio Berlusconi l’ho incontrato tre volte, eravamo d’accordo di formalizzare l’ingresso nella società». Prima di ammettere questo e di cominciare a raccontare i rapporti che avrebbe avuto con l’ex premier Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano è partito da molto lontano, addirittura dallo sbarco di Garibaldi e dei mille. Quasi due ore saltando da un ricordo all’altro, aprendo di continuo lunghissime parentesi mentre parla, per la seconda volta, al processo ‘Ndrangheta stragista, nel quale è imputato insieme a Rocco Santo Filippone, uomo all’epoca a capo del mandamento tirrenico della mafia, con cui deve rispondere di essere stati mandanti degli agguati ai due carabinieri uccisi il 18 gennaio 1994 in Calabria, Antonio Fava e Giuseppe Garofalo. Un delitto, il loro, che secondo la ricostruzione dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia reggina si inserisce nel quadro più ampio della strategia di terrore messa in atto da Cosa nostra con gli attentati di Firenze, Roma e Milano, in accordo con le cosche della ‘ndrangheta. «Io sto dicendo cose ora…dovete avere il coraggio…di far emergere, si scopriranno tante cose, che sono ancora i misteri dell’Italia», dice Graviano al pm Lombardo.
La sua, a prescindere dalle divagazioni, è una storia che parte da lontano. Dalla figura di suo nonno materno, Filippo Quartararo. «Era una persona abbastanza ricca. Un giorno viene invitato a investire soldi al Nord nell’edilizia. Il contatto è con Berlusconi. Gli chiedono 20miliardi di lire e gli dicono che gli avrebbero concesso il 20 per cento – racconta -. Mio nonno voleva partecipare a quella società e curarsi le sue cose. Mio padre però gli disse che non voleva saperne e che non voleva che coinvolgesse noi nipoti. Intanto mio nonno quei soldi non li aveva, aveva messo insieme solo quattro miliardi e mezzo. Morto mio padre, mio nonno dice a me e a mio cugino Salvatore Graviano, che camminava sempre con me, la verità, ci dice della società con gli imprenditori del Nord, perché non aveva nessun altro a cui rivolgersi». I due giovani Graviano cercano, a loro volta, consiglio su come comportarsi. Si rivolgono a Michele Greco, il Papa, a suo dire uomo saggio e benvoluto da tutti, che sarebbe stato chiaro con loro: «”Certo qualcuno la deve portare avanti sta situazione”, ci dice. E quindi abbiamo deciso di sì, e siamo partiti per Milano». Giuseppe Graviano e il cugino Salvatore, quindi, accompagnano il nonno all’incontro per definire i suoi accordi.
«Mio nonno ci ha presentato Berlusconi nell’hotel Quark, un posto dove ho trascorso anche il veglione di Capodanno ’90. Berlusconi ci ha presentato la società, eravamo solo lui, io, mio cugino e mio nonno con l’avvocato Canzonieri e che voleva che i nostri nomi apparissero nelle carte della società perché i soldi erano leciti, puliti, dovevano entrare formalmente nella società mio nonno e quelli che avevano investito i soldi. Noi – continua a dire – eravamo lì con mio nonno perché lui ormai era molto anziano, dovevamo essere pronti a prendere il suo posto una volta morto. E così, quando è stato il momento, ha fatto mio cugino, io da ottobre ’84 ero latitante». Quello all’hotel Quark di Milano insieme al nonno sarebbe il primo incontro tra Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi. Un altro, secondo i suoi racconti di oggi a processo, sarebbe avvenuto nel dicembre ’93: «C’è una riunione preliminare con me, mio cugino e Berlusconi a Milano 3, la situazione andava regolarizzata – torna a dire -. Siccome Berlusconi aveva detto di sì, dovevamo fissare un appuntamento. C’erano anche persone che però non mi sono state presentate in quell’occasione. Penso sapesse che ero latitante, io mi sono presentato col mio nome, sapeva che ero nipote di mio nonno». Malgrado fosse latitante, tuttavia, non sembra che Graviano adottasse particolari misure per non farsi beccare. «Io facevo shopping tranquillamente in via Montenapoleone, frequentavo i ristoranti, ogni sera andavo al cinema o al teatro, una vita di divertimenti più che di latitanza. Ero latitante a Omegna dove stavo nella pace degli angeli, ma Milano per serviva per questi incontri, non avevo nessun timore, ma lo sapevo che mi stavano cercando». In quell’incontro il boss di Brancaccio e l’ex premier avrebbero formalizzato, insomma, la società imprenditoriale: «Fino ad allora certi nomi non comparivamo ufficialmente, ma solo in una carta privata che io ho visto».
Quindi viene fissato un ulteriore incontro, il terzo, avvenuto nel febbraio del ’94 per formalizzare l’ingresso dei Graviano nella società immobiliare di Berlusconi. «Tutto faceva parte di questo accordo, di quel 20 per cento, anche Mediaset – continua -. Nel ’92 ci dice che vuole scendere in politica, Forza Italia era già preparato all’epoca. Berlusconi ne parla con mio cugino Salvo, gli chiede se giù in Sicilia gli potevano dare appoggio. Mio cugino gli dice “non c’è bisogno che ti faccio campagna elettorale, c’è questa situazione a Brancaccio, rendilo un bel quartiere – come voleva fare mio padre, che faceva lavorare tutti – e vedi che la gente ti dà i voti”. Siamo prima della strage di Capaci, era successo da poco l’omicidio Lima mi pare». La carta di scambio avanzata dai Graviano, insomma, sarebbe quella di «portare un po’ di benessere al Sud, perché c’era il Nord che se ne approfittava, sempre la solita storia. Si è cercato sempre di svegliare questo Sud che non riesce a partire in nessun modo, anzi si va sempre indietro». Dare questo tipo di aiuto avrebbe assicurato all’ex premier i voti necessari per sostenere il suo ingresso in politica. «Avevamo un rapporto bellissimo io e Berlusconi – torna a dire Graviano -, sempre tramite a mio cugino, mangiavamo insieme, abbiamo fatto una cena in quella riunione del dicembre ’93».
A un certo punto, però, Berlusconi «prese le distanze e fece il traditore». Così Graviano durante le sue confidenze in carcere con Adinolfi nel 2016. Cosa voleva dire? «Quando si è ritrovato ad avere un partito così, si è ubriacato, non voleva dividere niente – spiega, palesando subito però una certa ritrosia ad approfondire -. Si doveva abolire l’ergastolo con una riforma del codice penale, ma Berlusconi intendeva escludere da questa riforma quelli condannati per le stragi. Questo mi ha dato conferma che ha fatto parte del mio arresto e che era un traditore». Tra loro ergastolani, però, c’è subbuglio, per anni non si parla d’altro: come fare e a chi rivolgersi perché la loro situazioni sia più accettabile? «C’era uno ora all’ergastolo che aveva rapporti con Angelino Alfano, io gli dicevo “perché non lo diciamo a lui, chiediamogli perché a noi ci trattano così” – avrebbe suggerito Graviano -. Nemmeno la luce del sole possiamo vedere quando passeggiamo, nei materassi abbiamo la muffa, con gli avvocati possiamo parlare solo 10 minuti ma quanto possono bastare? Quante patologie a causa di questo regime, ho scritto anche alla ministra Lorenzin, dicendo di rispettare i patti presi con mio nonno. Tutto è per non fare uscire me dal carcere per questa faccenda dei soldi, di cui a me comunque non importa niente perché io voglio solo rispettare la parola data a mio nonno. Io qui non sto facendo niente, sto solo dicendo qualcosa, finché non vedo che succede qualcosa», dice ancora Graviano, lasciando intuire che quella di oggi d aparte sua sarebbe solo una piccola apertura. Non certo un racconto completo di tutto quello di cui sarebbe a conoscenza.
Ma perché, domanda il pm Lombardo, anche quel poco dirlo solo adesso? «Dottò…a me mi hanno ucciso il padre. Se i suoi colleghi avessero esercitato la professione…non mi troverei in carcere, non mi avrebbero ucciso il padre a 18 anni, eh…non mi faccia parlare, che stu vaso di Pandora si scoperchia troppo. Io – dice Graviano – ho subito solamente brutte situazioni, se mi date la possibilità ne parlerò. Ad oggi non è cambiato niente, solamente che lei mi sta facendo delle domande e io le sto rispondendo, cioè le darò degli elementi…è vergognoso quello che è stato fatto riguardo a me, io tutta sta fiducia alla pubblica accusa e ai presidenti ora tutti indagati insieme alla Saguto…insomma io tutta sta fiducia nella giustizia italiana non ne ho. Io sto dando degli elementi, se volete indagare indagate, io mi sono fatto 26 anni di carcere già e me li sto facendo con dignità, io sono in area riservata senza coperte a congelare, non ho mai avuto timore degli uomini, solo di Dio, mi sta bene il carcere, siamo di passaggio in questo mondo. Tutti eroi sono in Italia…vediamo se sono eroi oppure arrivisti».
In quelle famose conversazioni con Adinolfi, durante le quali Graviano si lascia andare a ricordi e sfoghi, il boss di Brancaccio parla anche di Sicilia Libera, un altro tassello di quel progetto politico delle mafie: «Sicilia Libera venne fondata nel Villaggio Euromare. Dopo il mio arresto, fu fatta fondere con Forza Italia, che ha preso tutti i voti di Sicilia Libera…la gente non sa cosa c’era di mezzo. Dopo il mio arresto si è fermato tutto, solo per accusare noi, che non siamo responsabili. Il progetto non era solo quello di un paradiso fiscale, ma di sfruttare le bellezze e le potenzialità che abbiamo in Sicilia». Ma le cose non sarebbero andate, a sentire Graviano, secondo i patti, perché finito in carcere, qualcuno si tira fuori da quello scomodo vincolo: «Si sono svincolati da tutto col nostro arresto, si sono svincolati da quell’accordo imprenditoriale e che a noi sarebbe servito politicamente per alcuni favori, col nostro arresto. Se i carabinieri dicessero la verità – insiste, come già alla scorsa udienza -, in particolare la persona che è protetta molto da destra e che sa tanto e non lo dico io. Nelle intercettazioni si fa il nome di un poliziotto, non dico il nome, ce l’avete voi là, fate le indagini, questa persona è protetta abbastanza da quelli che poi hanno fatto le leggi ingiuste; è lo stesso nome fatto dal confidente Giovanni Drago per l’omicidio di Onofrio Barone a Ciaculli».
Un’allusione dietro l’altra, condito da piccole confidenze e concessioni. Sembra questo, dopo ormai oltre tre ore, l’esame del boss di Brancaccio. Che oggi minimizza quella che, da parte sua, era sembrata una profonda delusione per il fallimento del progetto con Berlusconi: «Dopo quello che ha fatto mio nonno per lui…non solo economicamente – dice -. Visto che io ho rapporti economici, e lui politici, e le confidenze che avevamo…certo che potevamo avere soddisfazioni, ma non di criminalità ma di cose belle, perché l’Italia potrebbe essere il migliore Paese del mondo». E la reazione da parte dei legali di Silvio Berlusconi non si è fatta attendere: «Le frasi di Graviano sono platealmente infondate, sconnesse dalla realtà e diffamatorie».
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