Colajanni sentito da Commissione antimafia a Roma «Cosa nostra vivrà se si farà distinzione tra vittime»

L’ex presidente dell’associazione antiracket Libero Futuro Enrico Colajanni, in sciopero della fame da 41 giorni, è stato ascoltato ieri pomeriggio dalla Commissione nazionale antimafia a Roma. Un incontro innescato soprattutto dalla sua protesta estrema, quella del digiuno a oltranza, contro la decisione della prefettura di Palermo di togliere la sua associazione dall’elenco prefettizio delle realtà antiracket e antimafia, alludendo a imprenditori dal passato poco limpido e a interessi paramafiosi dell’associazione stessa. Dubbi respinti con forza dall’ex presidente, che ha in più occasioni sottolineato che dei circa 300 imprenditori assistiti in dieci anni di attività nessuno è mai andato incontro ad alcun processo o denuncia, si è sempre trattato di vittime che la mafia l’hanno respinta e denunciata senza ambiguità. E di fronte alla Commissione Colajanni ha portato le sue ragione. «Abbiamo esposto le nostre preoccupazioni, le nostre proteste, quelle di quattro nostre associazioni che vantano un curriculum molto importante alle spalle e che in passato come ancora oggi portano avanti un lavoro davvero grosso a fianco di chi denuncia», spiega a margine dell’audizione. 

«Oggi c’è una sorta di involuzione per cui in base a una serie di norme che lo consentono i prefetti possono sollevare dei dubbi pur non avendo prove e decidere a prescindere da quello che ha detto la magistratura che quell’imprenditore non è una persona molto pulita o molto affidabile – continua -. Una persona che quindi può essere per esempio interdetta per quanto riguarda i lavori con la pubblica amministrazione. Ma noi ci ritroviamo a fianco di persone che sono state lodate dai giudici per il loro operato, che sono state risarcite e poi uscite dai tribunali molte di loro sono incappate in queste interdittive che sono solo dei provvedimenti amministrativi ma molto gravi, perché praticamente puoi chiudere l’azienda e fare altro, in certi casi». In Sicilia occidentale Libero Futuro, che ancora oggi continua a portare avanti il suo impegno a sostegno delle vittime che denunciano e chiedono aiuto, è uno dei pochissimi organismi esistenti che svolge questo delicato ruolo. E attualmente è impegnata in almeno dieci processi in corso. Delle tante associazioni antiracket, infatti, non tutte forniscono questo tipo di assistenza, molte si dedicano ad attività socio-culturali e di sensibilizzazione.

«Questi provvedimenti secondo noi dettati dall’emergenza di molti anni fa, negli anni delle bombe, danno poteri abnormi a un funzionario che può fare sostanzialmente il contrario di quello che invece ha deciso un giudice – prosegue Colajanni -. C’è una parte dello Stato che invece di reagire in maniera intelligente, che è quella di dire che se c’è del marcio lo dobbiamo togliere e andiamo avanti, preferirebbe il silenzio da parte nostra su certi scandali, facendo gli ipocriti. A questo punto preferiscono azzerare tutto e riaccreditare quest’antimafia istituzionale in questo modo molto strano». E tira in ballo alcuni punti affrontati proprio durante l’incontro con la Commissione. «Il prefetto di Palermo Antonella De Miro ha detto insieme al commissario nazionale antiracket Domenico Cuttaia che bisogna distinguere tra le vittime che denunciano e le vittime che collaborano, come se avessimo vittime coraggiose e altre non coraggiose, ed escludere dai benefici di Stato quest’ultima categoria. Ora – osserva -, il 90 per cento degli imprenditori che abbiamo affiancato sono di questo tipo, di quelli che hanno collaborato, quindi se li escludi ci troveremmo davanti a una platea esclusa dagli aiuti, come l’accesso al fondo per il risarcimento che ti dà il giudice, perché se vai nelle casse del mafioso non trovi più una lira ovviamente, o le sospensive rispetto alle ostilità del mercato e alle porte chiuse delle banche».

Una distinzione, secondo lui, quindi piuttosto pericolosa e che, se applicata davvero, comporterebbe l’emarginazione di un numero molto alto di persone che ad oggi decidono di denunciare e di mettersi contro la mafia. «A quel punto perché dovrebbero denunciare? – si chiede -. Siccome, ripeto, il 90 per cento degli imprenditori rientra in questa categoria, chiamiamola così, vuol dire che la mafia vivrà. Non riesco a pensare altro e mi pare una follia. Il giudice non fa differenza tra le vittime, non importa se hai collaborato prima o dopo, l’importante è aver fatto una collaborazione chiara, non avere rapporti con i mafiosi, io ti risarcisco addirittura e sei una vittima al pari delle altre; ma uscire da un tribunale e trovare il prefetto che dice tutt’altro è una roba che secondo me grida vendetta. Chiaramente dobbiamo stare attenti a chi è particolarmente ambiguo, a quelli che magari fanno affari col mafioso, che lo cercano, ma sono pochi, anche perché i mafiosi sono rigidi, nel momento in cui devono fare affari con uno inaffidabile loro rischierebbero troppo. Se uno ha denunciato una volta, croce sopra, per loro sei uno sbirro, con te hanno chiuso». E se Colajanni parla in questo modo è perché dalla sua ha tanti anni di esperienza sul tema, anni fatti di storie, numeri e riscontri.

«La situazione è piuttosto complicata e la gente non capisce, si scoraggia, perde fiducia, associazioni come la nostra vengono delegittimate e le persone rimangono sole – conclude -. Non so quale sia la regione per cui si complica tutto in questo modo, se è incompetenza o malafede, davvero non lo so».

Silvia Buffa

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