Il «tesoretto» dei Santangelo è stato stimato in oltre un milione e 300mila euro. Ci sono dodici case – fra cui varie ville – e le società Q.F. Auto Srl (attualmente inattiva), Le Delizie Trasporti Società Cooperativa Agricola oltre a cinque beni mobili registrati dell’impresa individuale Vinciguerra Carmelo, operante nel settore slot machine, e diversi rapporti finanziari, nel patrimonio sequestrato dalla polizia di Catania su disposizione del tribunale etneo. Nel mirino sei persone ritenute appartenenti al clan mafioso Santangelo-Taccuni, operante ad Adrano e affiliato alla famiglia di Cosa Nostra catanese Santapaola-Ercolano: il patriarca Alfio Santangelo, già detenuto, il suo genero Antonino Quaceci e i figli di quest’ultimo Alfio, classe 1994, e Salvatore, classe 1992. Interessati dal sequestro anche Gianni Santangelo, classe 1983, e Ignazio Vinciguerra, classe 1965, anche lui pregiudicato già detenuto.
Le forze dell’ordine assestano così un nuovo colpo a uno dei clan più pericolosi del cosiddetto Triangolo della morte, il territorio fra i centri di Adrano, Paternò e Biancavilla. Il boss Santangelo, sebbene in carcere da anni, aveva continuato a dirigere le attività dell’organizzazione criminale, il cui nerbo è costituito dai suoi familiari, che a gennaio 2018 era stato oggetto di un maxi blitz, l’operazione Adranos. Furono in tutto 33 le persone arrestate, fra cui cinque delle sei persone oggi coinvolte nel sequestro, in gran parte poi rinviate a giudizio. Una precedente operazione risalente al 2009, il blitz Terra bruciata, aveva invece fatto luce sulla faida fra i Santangelo e gli Scalisi, in guerra per l’egemonia mafiosa su Adrano.
Le attività criminali spietate e abituali, come spiegano le forze dell’ordine, si concentrano principalmente su estorsioni e traffico di stupefacenti. I numerosi elementi raccolti nei confronti dei sei appartenenti all’associazione mafiosa, cristallizzati in corpose informative all’autorità giudiziaria, hanno utilizzato le risultanze emerse dalle attività tecnico-investigative della squadra mobile per l’accertamento dei reati presupposto, compreso il contributo fornito da numerosi collaboratori di giustizia, che avrebbero ampiamente delineato per tutti una gravissima e qualificata pericolosità sociale. Inoltre è stata messa in luce la sproporzione fra tra i redditi formalmente dichiarati al fisco ed i beni riconducibili ai soggetti coinvolti.
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