Cittadini, ccu tuttu ‘u cori: viva Santa Lucia

A chi ha superato la soglia di una certa età capita spesso di ripercorrere all’indietro il tempo trascorso. Un’abitudine resa piacevole non tanto dall’allontanamento dal presente quanto dal sollievo che si prova man mano che le ansie e gli assilli quotidiani cedono il passo alla semplicità di un tempo ormai lontano.
Questo percorso lento trova sempre il suo naturale approdo nel solito scenario, assai diverso da quello di oggi, in cui la vita era più semplice, i rapporti umani erano più sinceri e ciascuno si considerava contento di quel poco che c’era e di quel poco che aveva.
Un consistente contributo a quel “poco” era dato dalle feste di paese, che erano molto attese non solo perché spezzavano il tranquillo andazzo della vita di tutti i giorni, ma perché erano l’occasione per ampliare la sfera delle conoscenze e rafforzare i legami tra amici e parenti.

A Belpasso la festa per eccellenza era quella di Santa Lucia, la cui attesa cominciava subito dopo i morti, quando si cominciavano a contare con impazienza i giorni che mancavano al 30 di novembre: quel giorno, gli inconfondibili rintocchi della campana grande della Matrice avrebbero annunciato l’inizio della Tredicina, un appuntamento che pochi avrebbero disatteso, se non per improrogabili necessità.
In mezzo alla folla che ogni mattina affollava le navate della chiesa per assistere alla funzione, numerosi erano i ragazzi, che nulla avrebbe potuto fermare, né la fatica della levataccia per essere puntuali alle 5 del mattino e neanche i rigori del clima (particolarmente sferzante a quell’ora e in quel periodo dell’anno). Quel «ccu tuttu u cori!», seguito da «W Santa Lucia!» ripetuto con forza e con fede per tredici mattine consecutive, sarebbe stata la migliore gratifica per i sacrifici sostenuti e sopportati. 

A vivere l’attesa della Festa era anche un nutrito esercito di professionalità – elettricisti, falegnami, fabbri, carpentieri, pittori, tecnici e chi più ne ha più ne metta – che sin dalla fine dell’estate era impegnato nella progettazione e nella realizzazione dei Carri allegorici.
Erano i “giovani cantanti” e la loro attesa, più che verso il 13 dicembre, era proiettata verso il giorno prima, vigilia della festa e giornata molto intensa. I ragazzi delle scuole facevano mezzo orario e assistevano al rito della deposizione della corona di alloro davanti al monumento ai caduti allo Stricanacchiu, assieme alle autorità civili, religiose e militari. Dopo la processione delle reliquie, che si svolgeva in prima serata e si concludeva con l’offerta della cera, arrivava il momento più atteso: l’apertura dei Carri, con le note di Fik Flok ad accompagnare la scena finale di ciascun Carro che proponeva il trionfo e la gloria della Santa siracusana, spinta sempre più in alto verso il cielo da meccanismi di anno in anno sempre più sofisticati. 

Poi si rientrava a casa e iniziava la lunga notte di Santa Lucia, una notte che sembrava non finisse mai, scandita ogni quarto d’ora dai potenti colpi di cannone, provenienti dall’Ascino e dalla Silva, accompagnati dal suono della campana grande. Una notte bellissima, per la quella magia che ogni anno si ripeteva, per le intense le sensazioni che si provavano e per quel lieto miscuglio di suono e rumore che precedeva la festa.
L’indomani tutti si sarebbero sentiti un po’ diversi, specie i ragazzi, non perché avrebbero smesso i vestiti di tutti i giorni, ma perché avrebbero sentito nei propri cuori qualcosa di nuovo: la festa, appunto.
Oggi – forse perché la frenesia della vita moderna ha reso le giornate tutte uguali – non è più così: non solo non c’è più l’attesa della festa, ma anche la festa non è più la stessa. La comunità locale ha perso la sua originaria omogeneità e sconta la nuova eterogeneità con l’indifferenza dei nuovi arrivati che non fanno mistero della loro insofferenza per tradizioni che non sentono proprie e per certe «barbare usanze di paese», come il suono delle campane o i colpi di cannone nei giorni di festa. 

C’è anche un altro elemento che rende la festa di quest’anno diversa ed è il ridimensionamento del programma delle manifestazioni, che risulta assai più contenuto rispetto a quello di qualche anno fa. Scelta, questa, imposta dal perdurare dell’emergenza dovuta al coronavirus che, tutte le volte che sembra sul punto di essere superata, si ripresenta con nuove mutazioni e varianti che rinnovano timori e preoccupazioni. A ciò si è aggiunto il provvedimento del questore di Catania che impone nuove restrizioni e annulla le spaccate dei Carri allegorici previste per le serate dell’11 e del 12 dicembre. Una decisione inattesa che, oltre a vanificare il generoso impegno dei giovani cantanti, dà un duro colpo alla ripresa di quella normalità molto sentita ma che purtroppo appare sempre più lontana.
Non ci saranno i Carri, dunque, ma continuerà a esserci Il solenne e tradizionale rintocco della campana grande della Matrice che, nella notte tra il 12 e il 13, ha ribadito la storia di una comunità tante volte caduta e altrettante volte rialzatasi. E allora e si ripenserà alla stranezza delle ultime due feste (quella del 2020 e questa del 2021), si ricorderanno i disastri di questa calamità assai dura a morire e si rinnoverà il ricordo di chi purtroppo il Covid si è portato via. E chissà che la riflessione non si riveli utile a stemperare intransigenze e intolleranze, a mettere da parte delusioni e polemiche, a sollecitare atteggiamenti più inclini alla tolleranza e alla solidarietà. Sarebbe anche questo un bel modo di dare un senso alla festa.

Vito Sapienza

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