Cinisi, l’uomo ucciso al posto di Procopio Di Maggio «Come spiegare che mio padre era morto per caso?»

«Se l’hanno ucciso un motivo ci sarà». Sono in molti a pensarlo fra sé e sé quel giorno di 34 anni fa a Cinisi, mentre a terra nella piazza principale c’è Salvatore Zangara. È l’8 ottobre 1983, una sera come tutte le altre: lui, titolare di un laboratorio di analisi e segretario locale del Psi, sta facendo un aperitivo con degli amici prima di rientrare a casa. Poi quella raffica di proiettili sparati da una Renault 5 di passaggio e tutto cambia in un attimo. Non è lui, però, il bersaglio. Nello stesso posto, in quel preciso momento, c’è anche Procopio Di Maggio, storico boss di Cinisi, che passeggia insieme al figlio Giuseppe. È a loro che sono indirizzati quei colpi. Ma si salva, e non sarà neppure l’unica volta. Malgrado i numerosi attentati messi in atto da un altro storico cognome di mafia del paese, quello dei Badalamenti, alleati che aveva tradito per passare dalla parte dei corleonesi, Di Maggio non morirà lungo una strada crivellato di colpi, ma nel suo letto alla veneranda età di 100 anni.

«Ma che ci fai qua? Guarda che hanno ammazzato a tuo padre». È una serata come le altre anche per Antonio Zangara, fino a quando non incontra un compaesano che gli dice di tornare di corsa a Cinisi. Sembra uno scherzo di cattivo gusto. «Se non ci credi vai in piazza, vai a vedere, continuava a ripetermi. E io in quella piazza ci sono andato. Era strapiena di gente, come se fosse una festa di paese». È ancora tranquillo, però, Antonio, all’epoca diciottenne. Suo padre non era un uomo di mafia, né un togato o un poliziotto. Non sa ancora però che anche la mafia sbaglia bersaglio. «Mi avvio tra la folla, ricordo la netta percezione che quello che era successo mi aveva preso e travolto tutto insieme: la gente cominciava ad allontanarsi, non mi guardava, si girava dall’altra parte, mi evitava. Fino a quando un ragazzo non mi è venuto incontro e abbracciandomi mi dice che mio padre è in ospedale e che mi avrebbe accompagnato a casa. Dopo mezzora la notizia che non ce l’aveva fatta. Per me l’8 ottobre è questa immagine della gente che fugge da me e non ha il coraggio di raccontarmi quello che è successo».

Ci vogliono quattro anni per riconoscere Salvatore Zangara una vittima innocente e casuale della mafia. Per quattro anni, infatti, dall’83 all’87 le indagini puntano più a carpire eventuali collusioni della vittima che assassini e mandanti, che infatti non avranno mai, in questa storia, un nome e un volto ufficiale. Quattro anni di telefoni sotto controllo, di intercettazioni e indagini a proprio carico, e poi il responso definitivo della Prefettura. Seguono, però, 25 lunghissimi anni di silenzio. «Anni di una vergogna difficile da spiegare, la vergogna del sopravvissuto di cui parlava Primo Levi – racconta Antonio – Ero convinto che la mafia uccidesse per un motivo, che non potesse sbagliare. E invece con mio padre ha sbagliato, ma come avrei fatto a spiegarlo alla gente? Nessuno ci avrebbe creduto».

Che la mafia possa sbagliare bersaglio senza neppure farsi troppi scrupoli, Antonio per primo lo scopre anni dopo. Quando conosce Libera di Don Ciotti, i suoi volontari e le storie delle altre vittime, comprese le oltre 300 uccise per caso. Salvatore Zangara non è che un tassello in mezzo a tante altre storie tristemente simili. Per la sua morte, però, non si celebra nessun processo. «L’unico stralcio giudiziario che racconta in parte la vicenda dell’8 ottobre a Cinisi è una sentenza del Maxiprocesso bis che vede imputato Procopio Di Maggio, nella quale l’allora capitano Arena dei carabinieri racconta un po’ tutti gli attentati subiti dal boss, in quel periodo preso di mira dalla famiglia Badalamenti, che aveva tradito. Ma nient’altro». Zangara e, insieme a lui quel giorno Salvatore Gimbanco e Francesco Lo Bello sopravvissuti, sono semplici persone che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato? «No – risponde secco Antonio – L’ho pensato anche io, ma non è così. Magari erano proprio nel posto giusto, erano i mafiosi che si trovavano nel posto sbagliato, erano loro che non dovevano stare lì».

Di quel giorno di 34 anni fa, intanto, non resta che una targhetta affissa dodici anni dopo nella piazza che fu teatro dell’agguato. E che qualcuno tentò subito di fare togliere. «A Totò ce lo ricordiamo tutti, non abbiamo bisogno di quella targa». Dice così alla vedova per telefono una voce amica. La targa però rimane al suo posto. Ma tempo dopo ne spunta una più grande e posta di fianco, che ne vieta l’affissione. Un episodio che testimonia la spaccatura di Cinisi, il suo doppio volto. Quello di un paese che nel privato di una casa ricorda ed elogia Salvatore Zangara, ma che pubblicamente lo ignora. «È come se nessuno volesse più ricordare quell’8 ottobre, neppure le famiglie dei sopravvissuti, questa è una cosa che mi fa veramente male. Si vuole cancellare quella giornata». E malgrado i cambiamenti e i passi avanti, sono tanti i pregiudizi e i miti ancora da scardinare. Soprattutto a proposito dei codici d’onore di Cosa nostra. «In molti ancora oggi non sanno che la mafia uccide anche donne e bambini – conclude Antonio – Vado in giro per le scuole di ogni ordine, grado ed estrazione sociale per sfatare questi luoghi comuni».

Silvia Buffa

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