Ciancio, l’attentato e il tecnico della strage di Capaci «Nei campioni di terreno nessun segno di esplosivo»

Chiamarlo cratere? «Credo sia un termine non appropriato». D’altronde, a volere prendere in prestito le parole del presidente della prima sezione penale Roberto Passalacqua, «un cane che copre gli escrementi fa una buca più grande». Si tinge di giallo l’ultima udienza del processo a Mario Ciancio. Imprenditore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia accusato dai magistrati della procura di Catania di concorso esterno in associazione mafiosa. A tratteggiare i contorni della trama ci pensa il racconto in video conferenza di Francesco Squillaci. Ex killer della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano, che da aprile dello scorso anno ha deciso di collaborare con la giustizia. Mettendo da parte anche una parentesi da dichiarante

Io mi sono occupato di lanciare la bomba

Così nel suo romanzo criminale è tornato anche l’editore monopolista e i suoi presunti rapporti con il padrino Nitto Santapaola. Storia in parte già svelata nel 2014 ma che adesso si arricchisce di ulteriori dettagli. Molti dei quali seguiti da grossi punti interrogativi. Il nastro dei ricordi deve essere riavvolto al biennio 1989/1990. Quando il pentito, allora poco più che ventenne, ascolta una chiacchierata tra il padre Giuseppe e il latitante Francesco Mangion. Due pezzi da novanta della mafia del tempo. «Ciancio sentiva il fiato sul collo dei magistrati – racconta – bisognava farlo passare per vittima di Cosa nostra. Doveva rifarsi una verginità». Dalle parole si sarebbe passati ai fatti: «Bisognava fare un attentato e ci occupammo personalmente di questa cosa». Rispetto al 2014 Squillaci si autoaccusa di avere avuto un ruolo determinante in questa faccenda. Dai test, «effettuati in campagna due o tre volte per evitare qualsiasi tipo di danno alle persone», al lancio dell’ordigno dentro una villa di proprietà dell’editore, nella zona Canalicchio. «Fu un lavoro certosino – insiste, sollecitato dalle domande della pm Agata Santonocito – Io mi sono occupato di lanciare la bomba accendendo l’innesco con la sigaretta». L’esplosione dopo alcune decine di secondi.

Ciancio? Era amico di Santapaola

«Si sentì un botto fortissimo e da quella volta in poi non ho mai più sentito parlare di Ciancio», aggiunge Squillaci. Ma perché Cosa nostra si sarebbe dovuta muovere? «Ciancio era un amico di Santapaola – racconta il pentito – e poi aveva amicizie tra imprenditori, politici e all’interno del tribunale di Catania». Una sorta di favore di cui, forse l’indomani, sarebbe stato informato Nitto Santapaola in persona. «Ci andammo con mio padre e gli disse: “Il discorso del dottore tutto apposto“». Qualcosa però di quanto accaduto in quel 17 agosto 1990 sembrerebbe non tornare. Un campione di terriccio, a quanto pare prelevato dalle forze dell’ordine all’interno del cratere formatosi a terra dopo l’esplosione, non presenta tracce di polvere da sparo o altri elementi compatibili con un ordigno. A dirlo, dal banco dei testimoni, è Paolo Egidi. Super tecnico in esplosivi della polizia scientifica in servizio a Roma che ha indagato anche sulla strage di Capaci. «Analizzai 230 grammi di materiale raccolto in una busta di plastica ma l’esito fu sempre negativo». Com’è possibile? «Può essere che il campionato sia stato fatto male», precisa. Difficile dirlo a distanza di 29 anni. Di sicuro c’è che dell’attento La Sicilia non ha mai dato notizia. 

A terra dopo l’esplosione, e sono due testimoni a dirlo, rimase una buca «larga massimo 30 centimetri e forse profonda 10», racconta Domenico Percolla, nel 1990 in servizio alla Digos di Catania. «Era pomeriggio e mi recai personalmente sul posto. Non c’erano danni gravi ma solo alcune bruciature nelle piante. Ma non ci furono mai spunti per indicare movente o autore. All’epoca venne sentito anche il custode, lo stesso che chiamò le forze dell’ordine (l’uomo da qualche tempo è deceduto, ndr)». Per organizzare il finto attentato, secondo la ricostruzione di Squillaci, sarebbero arrivate in zona tre macchine, parcheggiate in via Leucatia, a circa un chilometro di distanza dalla villa di Ciancio. «A spostarci a piedi però siamo stati soltanto io e Carmelo Nicolosi», precisa. I due, dopo avere lanciato la bomba, avrebbero atteso in zona l’arrivo dei pompieri, annunciati dal rumore della sirena. Non è chiaro però se quel giorno i pompieri siano mai intervenuti. 

Un capitolo a parte dell’udienza è quello che riguarda i progetti di due centri commerciali nel territorio del Comune di Misterbianco. Mito, mai realizzato ma, almeno sulla carta, da portare avanti nei terreni di Ciancio in contrada Cardinale, e Tenutella oggi Centro Siciliafinito al centro del processo antimafia Iblis. Operazioni concorrenti su cui la procura vuole vederci chiaro. A sfilare sul banco dei testimoni ci sono l’imprenditore Nicolò Ripa e l’agente immobiliare Giuseppe Fiume. Il primo, per un periodo socio dell’imprenditore messinese Antonello Giostra, parla delle sponde politiche che i due avrebbero cercato per avere l’approvazione del progetto Mito. Il suo è un lungo elenco di nomi che parte dall’ex senatore Pino Firrarello, passa per l’attuale sindaco di Misterbianco Nino Di Guardo, e finisce con l’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo. «Ai politici interessava il discorso sociale, i posti di lavoro», racconta Ripa. «Ciancio si è interessato dei rapporti con la pubblica amministrazione?», chiede il pm Antonio Fanara. «A me non risulta», replica l’imprenditore. L’operazione alla fine, nonostante la stipula di un preliminare di vendita dei terreni, non si è mai concretizza. 

Dario De Luca

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