Centosettanta pagine. Sono quelle che ha utilizzato la giudice per le indagini preliminari Gaetana Bernabò Di Stefano per motivare la sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo. L’imprenditore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa dalla procura di Catania. Il capo d’imputazione frutto dell’intuito di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1982, che si ottiene sommando gli articoli 110 e 416bis del codice penale, è il nodo centrale delle motivazioni della sentenza. «Un fatto non previsto dalla legge come reato», si legge nel documento. Un orientamento, quello della giudice catanese, che viene dettato dal cambio dei tempi rispetto agli anni ’80. «Non può non considerarsi come siano passati oltre trent’anni senza che il legislatore abbia inteso disciplinare questa delicatissima materia».
Dubbi e perplessità che si allacciano al periodo, oltre quarant’anni di vita secondo la procura etnea, che Ciancio avrebbe messo a disposizione di Cosa nostra pur non essendone un affiliato: «La contestazione stride con la formulazione concreta effettuata […] sono state contestate condotte per un lungo periodo e con una articolazione talmente ampia da essere in netto contrasto con la figura del concorso esterno», puntualizza Bernabò Di Stefano. A mancare nello specifico sarebbero anche le condotte che l’editore avrebbe portato a termine per favorire la mafia. «Vengono enucleate tipologie di comportamenti, senza indicazione di specifici tempi, di precise condotte, di determinati soggetti». Una mancanza, quella imputata ai magistrati inquirenti, che secondo la giudice renderebbe l’intera materia «evanescente e nebulosa» in relazione alle accuse a Ciancio.
La genesi della vicenda processuale risale al 2007, anno in cui viene aperto il fascicolo a carico dell’imprenditore monopolista dell’informazione. Le indagini proseguono fino al 2012. Ad aprile la procura chiede l’archiviazione che il giudice per l’indagine preliminare Luigi Barone respinge chiedendo una proroga all’inchiesta. A distanza di tre anni è la stessa procura a cambiare opinione e chiedere il rinvio a giudizio. Una decisione che poggiava anche sull’esito del processo a Raffaele Lombardo. Nelle motivazioni della condanna dell’ex governatore per concorso esterno uno dei nomi che veniva messo nero su bianco dalla giudice Marina Rizza era proprio quello di Ciancio. Il documento, per la collega Di Stefano, «non consente di colmare le carenze strutturali dell’impianto accusatorio soprattutto perché non consente di operare un sillogismo tra i due soggetti, Ciancio e Lombardo».
A cadere per la giudice sono anche gli altri passaggi salienti delle accuse mosse a Ciancio. A partire dalla linea editoriale del quotidiano La Sicilia. Orientata in favore della mafia, secondo l’accusa, perché collegata alla vicenda della mancata pubblicazione del necrologio per il commissario Beppe Montana e alla visita del boss Pippo Ercolano nella sede del quotidiano nel 1993: «La mancata ricostruzione di una precisa, dettagliata, puntuale linea editoriale contigua alla mafia non consente – scrive la giudice – uno sviluppo ulteriore di un episodio (quello di Ercolano, ndr) limitato nel tempo e nello spazio e, peraltro, risalente nel tempo». Per quanto riguarda gli affari economici legati al Pua e ai centri commerciali, la giudice li ritiene legati più a logiche affaristiche che mafiose.
Un capitolo specifico è quello che viene dedicato all’intercettazione del 2013 tra l’editore e l’attuale sindaco di Catania Enzo Bianco. Una chiamata che «si inserisce […] in un quadro probatorio carente e contraddittorio», precisa la togata. Il gip Luigi Barone, secondo quanto riporta la motivazione, nel 2012 chiedeva indagini sull’esistenza di legami tra l’imputato ed altri soggetti della pubblica amministrazione per modificare la destinazione urbanistica di terreni agricoli: «Tale accertamento non è stato svolto», continua la giudice. La procura farà ricorso per Cassazione. C’è la possibilità che le parti civili impugnino il dispositivo. Entro 15 giorni dalla notifica di deposito.
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