«Dovrei essere proprio uscito di senno per non essermi reso conto in tutti questi anni di aver collaborato con un giornale con una linea editoriale di favoreggiamento ad esponenti delle cosche mafiose». Dopo un comunicato dei giornalisti, arriva sempre dalle pagine de La Sicilia l’ultima in ordine di tempo difesa al direttore-editore del quotidiano etneo Mario Ciancio Sanfilippo, indagato a Catania per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa volta si tratta di un editoriale pubblicato ieri, 28 novembre, a firma di Pietro Barcellona, docente universitario ed ex deputato Pci, storico collaboratore della testata. Un intervento che non è passato inosservato e che, come già successo in passato, ha sollevato qualche polemica.
L’editoriale, dal titolo Lotta alla mafia e libertà d’informazione oggi in Sicilia, si scaglia contro il «pressapochismo giudiziario». Nello specifico l’abbaglio, secondo Barcellona, preso dal giudice etneo Luigi Barone che non ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura per l’accusa a carico di Ciancio, disponendo ulteriori indagini. Nel ricco faldone in mano alla procura trovano già posto accertamenti sulle attività imprenditoriali dell’editore catanese e sui suoi presunti contatti con esponenti di Cosa Nostra. Che avrebbero anche portato a fare delle scelte sul giornale: come non pubblicare i necrologi delle vittime di mafia Giueppe Fava e Giuseppe Montana, ma inserire in una edizione dell’ottobre 2008 la lettera di Vincenzo Santapaola figlio del boss Nitto senza alcuna presentazione del personaggio, seppure si trovasse detenuto al 41bis e impossibilitato a comunicare con l’esterno. Tutti elementi che, secondo Barcellona, punterebbero dritto alla linea editoriale del giornale, insunuando presunte pressioni già rifiutate dai redattori de La Sicilia nella loro recente nota. «Debbo pensare scrive Barcellona – che nella generale confusione dei linguaggi il gup non abbia chiaro cosa vuol dire che la linea editoriale di un giornale è orientata a sostenere Cosa Nostra».
Il docente di Filosofia del diritto alla facoltà di Giurisprudenza di Catania ricorda pubblicazioni come l’intervista in cui Pio La Torre – anche lui vittima di mafia, nel 1982 – denunciava collusioni imprenditoriali e malaffare sull’isola. E ancora i suoi stessi interventi «in ogni circostanza che richiedesse una pubblica testimonianza di coraggio civile e di solidarietà verso le vittime degli assassini mafiosi». Tutte prove della bontà e della pluralità voluta dall’editore-direttore, sottolinea Barcellona, a cui oggi viene rivolta un’accusa di «mafiosità» come «generico strumento per discreditare tutte le posizioni che emergono in un dibattito civile come quello che è ospitato da La Sicilia». Un discredito di cui il docente aveva già parlato all’indomani dell’inchiesta tv della trasmissione Report su Catania. In cui era coinvolto proprio Mario Ciancio Sanfilippo. Ma questa volta il giudice di Roma ha dato ragione alla controparte, i giornalisti Sigfrido Ranucci e Antonio Condorelli, contro i quali l’editore etneo aveva avanzato una richiesta di risarcimento. Adesso, a pagare le spese processuali per 30mila euro, dovrà invece essere lui.
Come in quell’occasione, anche stavolta non tutti sono d’accordo con Barcellona e la sua difesa. «Quando si dà del pressappochismo a qualcuno, sarebbe opportuno studiare, leggere, sapere di cosa si sta parlando. Altrimenti si corre il rischio che il pressapochismo lanciato si trasformi, ritorcendosi contro, in ignoranza». A rispondere al docente è Goffredo D’Antona, penalista e membro dell’Osservatorio dei Diritti di Catania. «Attestare stima per il proprio datore di lavoro è un conto scrive il legale – ma scrivere cose non vere su un provvedimento che forse non è stato neanche letto, non solo non è comprensibile, ma è grave». D’Antona rimprovera a Barcellona la confusione giudiziaria fatta nel suo editoriale. Tra elementi tecnici come l’impossibilità di rifiutare due volte una richiesta di archiviazione presentata una volta sola e teorie che non trovano riscontro nella realtà dei documenti. Nello specifico, la presunta indagine chiesta dal gip Barone proprio sulla linea editoriale de La Sicilia, non specificata da nessuna parte. «Quando si mistifica la realtà, o quando si scrive senza sapere, non si tratta solo di difendere il proprio datore di lavoro, è qualcosa di peggio conclude D’Antona – Il pressappochismo è una brutta cosa, ma lignoranza, la mistificazione dei dati processuali è ancor più brutta».
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