Ciancio e la ricca eredità: per i giudici è solo «ostentata» «Poca per investire due miliardi di lire nei primi anni ’70»

Nel tratteggiare il profilo di Mario Ciancio Sanfilippo i giudici del tribunale misure di prevenzione non hanno nessuno slancio di garantismo. L’editore ed ex direttore del quotidiano La Sicilia avrebbe caratterizzato la sua vita, e le sue attività imprenditoriali, attraverso gli «accordi occulti con Cosa nostra». Una storia in cui i titoli di coda sono assai lontani, nonostante Ciancio abbia 86 anni, e che per essere raccontata deve ripercorrere una carriera cominciata quasi 60 anni fa. Quando il re dell’informazione attraversava uno dei momenti di massima ascesa. Direttore, dal 1967, del quotidiano di viale Odorico da Pordenone, tra il 1974 e il 1975, aveva fondato la Nuova industria editoriale siciliana e la Domenico Sanfilippo editore, l’azienda che prendeva il nome dello zio materno e padre adottivo. L’avvocato di Adrano pioniere dell’informazione che poteva vantare un notevole forza economica tanto da lasciare al nipote Mario crediti per 500 milioni di vecchie Lire.  Soldi che per i magistrati e i giudici del tribunale misure di prevenzione però non sarebbero comunque bastati a tessere la tela dell’impero Ciancio, già capace – negli anni ’70 – di investire oltre 2 miliardi di vecchie Lire. La ricostruzione viene messa nero su bianco nel provvedimento con cui è stata disposta la confisca di primo grado dei beni dell’ex direttore,sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa

Un imprenditore capace di mettere a segno investimenti «impressionanti» che nasconderebbero «operazioni speculative» e «reimpiego di capitali illeciti», precisa il collegio. Rappresentazione a tinte grigie in cui l’ingombrante ruolo di co-protagonista spetterebbe alla famiglia mafiosa catanese dei Santapaola-Ercolano. Ritenuta beneficiaria in maniera «costante» di una serie di contributi «tali da agevolarla e rafforzarla», scrivono i togati. L’analisi delle decine di faldoni da parte del collegio, presieduto dal giudice Nunzio Trovato, inizia nel 2015 quando per la prima volta la procura chiede di sottoporre a sorveglianza speciale Ciancio e di sequestrargli alcuni conti correnti in Svizzera. Ci voglio diversi mesi, in cui si inserisce anche un primo diniego, per arrivare ai sigilli di due depositi e una somma di cinque milioni di euro in contanti conservati in una filiale Intesa San Paolo a Catania. Quasi quattro anni per un procedimento che ha passato in rassegna non solo i rapporti economici del potente uomo d’affari e la linea editoriale del giornale che ha diretto per 51 anni, ma anche la presunta conoscenza con alcuni tra i più importanti capimafia della città. Almeno a partire dalla reggenza del boss Pippo Calderone, identificato – secondo l’accusa – come il primo dei padrini a sedersi al tavolo dei cavalieri del lavoro. «Gli imprenditori amici», li definisce il pentito Giuseppe Ferone in uno dei verbali che ha riempito, che si sarebbero occupati di lavare i soldi sporchi di Cosa nostra per reimmetterli nei circuiti economici legali. Ciancio stesso, secondo i giudici, avrebbe «reimpiegato enormi flussi di denaro di provenienza inspiegabile», garantendo alla mafia «controllo e manipolazione delle fonti giornalistiche». 

La prima immissione di capitale nel mondo imprenditoriale da parte dell’editore viene bollata dai giudici come «ingiustificata». In un documento che contiene una lunga analisi di numeri, ossatura fondamentale di un procedimento di per sé autonomo ma che inevitabilmente ha avuto un parallelismo con le indagini penali. «L’opacità» in cui Ciancio avrebbe mosso i primi, rilevanti, passi da imprenditore vengono accostati all’eredità, definita nei documenti come «ostentata», tanto che non avrebbe potuto permettergli di movimentare enormi flussi di denaro riuscendo a realizzare anche una serie di plusvalenze ritenute sospette, in cui le società, nel tempo, avrebbero beneficiato «di apporti di capitali, anche rilevanti, la cui origine è del tutto inspiegabile». Una sorta di peccato originale che per i giudici avrebbe viziato il grosso delle successive iniziative economiche. Spesso attuate con il «paravento» della Figeroma. Società di gestione fiduciaria facente capo al Banco di Roma ma riconducibile a Ciancio. Attiva, scrivono i giudici, nel gestire pacchetti d’azioni acquistati per conto dell’editore.

Nelle quasi 400 pagine del provvedimento non c’è soltanto l’analisi degli affari più noti. In particolare centri commerciali e vendita di terreni agricoli con annessi cambi di destinazione d’uso. A spiccare sono le analisi delle somme in entrate e uscita della famiglia Ciancio. Sotto la lente d’ingrandimento, infatti, sono finite anche le disponibilità della moglie e dei figli che con società e possedimenti, secondo le indagini, avrebbero allargato la galassia di riferimento all’editore. I giudici storcono il naso, per esempio, quando viene passata al setaccio la Nuova industria editoriale siciliana, azienda nata nel 1974. Qualche anno dopo, 1981, Ciancio vende le azioni a se stesso, attraverso l’acquisto da parte della Società italiana grafica editoriale, realizzando una plusvalenza da oltre tre milioni di euro. Titoli che, secondo i giudici, non potevano avere «quel valore elevatissimo attribuito loro da Ciancio nella compravendita». Discorso simile nel 1996. Anno in cui l’editore vende proprio la Sige a un’altra sua azienda: la Etis 2000, ricavandone una somma pari a 25 milioni di euro. «Operazione dal carattere eminentemente speculativo e volta a incassare la plusvalenza prodotta da tale vendita», chiosano i giudici nel dispositivo. 

Per decenni, secondo l’analisi dei documenti, il saldo di fine anno di Ciancio sarebbe rimasto con il segno meno, fino a raggiungere la soglia di quasi 120 milioni di euro nel 2013 (ultimo anno preso in esame, ndr). Un disavanzo tale che però non gli avrebbe impedito di aprire conti di deposito all’estero. Operazioni «sicuramente da collegare alla disponibilità di ingenti somme non giustificate dalle entrare».

Dario De Luca

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