Chiude Calicar, l’autosalone delle vittime di Cosa nostra L’appello di Daniele alla società civile: «Fatemi lavorare»

«Faccio un appello alla società civile, perché
lo Stato ci ha lasciati soli e rivolgersi alle istituzioni mi sembra inutile. Allo Stato non chiedo più niente perché ha dimostrato di abbandonare tutti: che siano testimoni di giustiziavittime di mafia, se non sei nel cerchio magico o se non sei ruffiano non ti aiuta nessuno». Per Daniele Ventura il 2020 non si apre nel migliore dei modi: l’autosalone di viale Regione Siciliana dove lavorava ha chiuso il 31 dicembre. E da vittima di mafia si è ritrovato ancora una volta solo. 

Un destino amaro che si ripete, visto che
a giugno del 2011 aveva avviato un’attività commerciale nel quartiere di Borgo Vecchio: lì però, ad appena tre giorni dall’inaugurazione, le prime richieste di pizzo. Daniele denuncia i suoi estorsori. Ma da quel momento i guai, anziché diminuire, aumentano: tra l’ostracismo del quartiere che lo abbandona, e lo costringe a chiudere appena un anno dopo, e le pressioni di Invitalia che chiede la restituzione del prestito che gli ha concesso per aprire l’attività commerciale

D’altra parte Daniele
non lavorava in un posto qualunqueCalicar era la concessionaria d’automobili in viale Regione Siciliana, nei pressi dello svincolo di Bonagia, che ha voluto dare sin da subito un chiaro segnale di legalità. Ad avviare il sogno è l’imprenditore Gianluca Calì, che ha denunciato nel 2011 i suoi estorsori. Due vittime di mafia, insomma, che hanno provato a supportarsi a vicenda. Con Calì che però, a distanza di poco più di un anno dall’assegnazione da parte del tribunale di Palermo di quel bene confiscato alla mafia, si trova già costretto a chiudere i cancelli.

«Il bene mi è stato affidato dall’amministratore giudiziario
nel 2018 perché si riteneva, e si ritiene tuttora, che chi denuncia debba avere una corsia preferenziale nella gestione di questo tipo di beni», afferma l’imprenditore che ha scelto di tornare in Sicilia dopo dieci anni vissuti a Milano. «E io l’ho acquisito con grande orgoglio e con grande voglia di fare. Come primo passaggio ho chiamato Daniele, che come è una vittima di mafia che ha fatto arrestare i suoi estorsori. Non perché mi volessi sostituire allo Stato, ma perché sappiamo che i tempi burocratici previsti dalla legge sono lunghissimi. Ecco perché lo avevo assunto, chiedendo di darmi una mano in questa avventura». Un’avventura di cui, però, resta l’amaro in bocca per entrambi. Specie per come è giunto questo finale.

«Abbiamo visto uno
scambio di bare di fronte al nostro cancello, una strana invasione di pecore nel nostro piazzale, continui passaggi di avventori in scooter che imprecavano al nostro indirizzo – sottolinea l’imprenditore – E infine il collocamento in pianta stabile di un venditore ambulante di sigarette di contrabbando che aveva particolare interesse verso i nostri clienti, e potenziali tali, a cui dispensava consigli per boicottarci. Sullo sfondo c’è il processo per estorsione ai miei danni che avrà inizio nell’aprile 2020. Negli ultimi mesi, mi avevano già staccato la luce e il telefono. La chiusura comunque è momentanea, il mio addio a Daniele è un arrivederci. Mi auguro infatti che lo Stato, nelle figure del prefetto e del commissario nazionale antiracket, possa spingere su questa benedetta pratica del risarcimento. In modo da permettermi di riassumere Daniele, e tutti gli altri dipendenti che ho dovuto licenziare, per rilanciare questa attività imprenditoriale anche a Palermo». Sia Calì che Ventura sanno di avere fatto il massimo. Ora però tocca agli altri impegnarsi: allo Stato e, più in generale, alla politica.

«Ho sondato già il terreno, soprattutto tra le persone che conosco – dice Daniele – Non chiedo neanche chissà cosa, mi basta anche un part time per permettermi almeno di vivacchiare. Non chiedo la luna, capisco quello che c’è in giro. So che alla Regione si sta discutendo di un
disegno di legge che doveva essere inserito nella Finanziaria, che prevedeva anche la possibilità di garantire il lavoro per le vittime di mafia che lo perdono o che non sono più nelle condizioni di portare avanti le proprie aziende. Se ne stavano occupando politici di tutte le fazioni. Ma come è noto mancano i fondi, quindi si rischia di non ottenere nulla. Speriamo, comunque, che le cose si sblocchino».

Mentre l’imprenditore palermitano
alle difficoltà reagisce con rinnovato vigore. «Faccio la mia parte – osserva Calì -, faccio quello che posso ma resto consapevole che le mie possibilità sono limitate. Non ho un pozzo senza fondo, l’attività imprenditoriale è fatta anche di negatività. E, se il bilancio si chiude col segno meno, prima o poi devi chiudere. Da soli non si vince, lo Stato deve essere più forte. Deve dimostrare che queste attività, che hanno finalità sociali e morali, devono essere preservate e sostenute. In ogni caso, la mia voglia di rivalsa non si ferma: io non sono uno che si piange addosso, che si limita a dire che lo Stato fa schifo. Guardo il bicchiere mezzo pieno, sempre». 

Andrea Turco

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