È il 1980, si appaltano i lavori della metropolitana di Catania. Nello stesso anno il paesino di Shenzen, in Cina, conta 30mila abitanti. Il governo cinese lo individua come Zona economica speciale. Nel 2010 i suoi abitanti superano la cifra di dieci milioni. La nostra metropolitana, nel frattempo, ha raggiunto la lunghezza di appena 3,8 chilometri di cui soltanto due sono interrati. Il resto esisteva già e scorre in superficie, dal porto a piazza Galatea. Quattro fermate in tutto, chiusa la domenica. C’è un altro tratto di metropolitana pronto: va dalla stazione verso il centro ma non esiste ancora l’ingresso per i vagoni.
Ecco, se si volesse trovare un simbolo per raccontare il fallimento di una città è proprio lì, sotto i nostri piedi. Uno sviluppo promesso e mai realizzato. Il tempo, nelle faccende dell’economia, non è indifferente. E mentre noi ci balocchiamo fra annunci di opere da venire, bancarotte più o meno fraudolente come Sigenco spa che quella metropolitana avrebbe dovuto costruire, o la chiusura concordataria dell’unica compagnia aerea, il resto del mondo corre.
Le città possono essere permanenti, ma non lo sono la loro ricchezza e il loro potere economico. Come in un campionato di calcio, le comunità gareggiano tra loro e qualcuna può retrocedere. In futuro la ricchezza di un popolo dipenderà soprattutto da quella delle sue città. La ricchezza della singola città dipenderà dalla sua capacità di essere attrattiva: per gli investimenti e per le intelligenze. La vivibilità di un’area urbana non è una semplice questione estetica, è economia. Crea ricchezza. Il suo sfacelo la impoverisce.
Nell’idea di vivibilità ci stanno tante cose, dalla pulizia alla correttezza dei rapporti commerciali, dalla capacità organizzativa all’interconnessione logistica di strade, porto, ferrovia, aeroporto. Ed anche, perché no, lo spirito di accoglienza dei suoi abitanti, l’offerta culturale, le occasioni di divertimento per il tempo libero. Anche qui si aggira un’illusione: che i mille bar e paninerie possano bastare ed invece non è così. La famosa movida catanese è ormai un falso movimento.
Eppure Catania per i suoi cittadini rimane lì, seduta al sole tra il mare e la montagna. Chi potrà mai smuoverla?
La classe dirigente annaspa e nel migliore dei casi spedisce i propri figli altrove. Il dibattito politico gira intorno ai nomi e non alle cose, meno che mai alle idee. L’università è diventata il luogo della sedentarietà e non della creatività scientifica. Un fenomeno come la St, dovesse nascere ai nostri giorni, sarebbe improponibile. Gli imprenditori da parte loro credono ancora alla favola di un complotto nazionale che volle distruggere i quattro cavalieri: ma in più di trent’anni, da quel tempo non si è riformata una nuova classe imprenditoriale. Un centro commerciale non è impresa innovativa. Dieci sono una catastrofe.
Eppure bisogna credere in un futuro di rinascita. Recuperare la diversità della nostra città. La vivacità e intraprendenza che la resero speciale tra i tanti luoghi di Sicilia.
Per farlo, occorre ripensare innanzitutto a un’idea di città. Bisogna chiedersi seriamente cosa fare di Catania, cosa vorrebbe o potrebbe diventare. In che direzione svilupparla.
E intanto cominciare a ripulirla. Di tutto. Di ogni sporcizia, fisica e morale. Scommettere sulla sua bellezza offuscata, individuare le sue vocazioni. Senza ripetere come un mantra la storia del turismo che ci farebbe vivere tutti da pascià. Il turismo da solo non basta.
La forza di attrazione di Catania deve ripartire dalla sua specificità geografica e culturale
Catania deve svilupparsi su più direttrici, tutte contenute nell’antico carattere: il commercio, l’industria, la logistica, la gestione dell’agroalimentare, e infine anche il turismo e la piazza, l’arte, il divertimento. Non è impossibile: l’economia può avere circoli virtuosi. L’importante è cominciare.
Sbaglia chi crede che l’industria sia condannata da una condizione periferica. Nell’era globalizzata tutto il mondo è periferia e tutto è centro. Semmai dovremmo comprendere che nessuno ha voglia di investire e fare impresa in un territorio imbruttito, aggressivo e disorganizzato, a meno che il costo del lavoro non sia quello delle periferie di Mumbai.
La forza di attrazione di Catania deve ripartire dalla sua specificità geografica e culturale. Dal riordino urbanistico del suo territorio che da oltre cinquant’anni attende il risanamento del centro storico mentre anche i nuovi edifici e il bel lungomare vanno in decadenza. Nel commercio, trovare il coraggio di dire ciò che tutti sanno: alcuni centri commerciali non servono, vanno chiusi e i loro spazi riconvertiti. I quartieri della città andrebbero caratterizzati per aree economiche di attrazione smettendo di copiarsi l’un l’altro per spingere invece verso il terziario avanzato.
Catania è il solo luogo in Sicilia ad avere nel suo carattere la capacità di innovare ed offrire servizi altrove improponibili. Ridisegnare il suo ruolo di centro logistico per tutta l’area orientale vuol dire ricordarsi di avere un aeroporto dal traffico eccezionale, che ha solo bisogno di essere esteso e dotato del criterio di intermodalità coerente con i parametri europei.
È necessario trovare finalmente una nostra immagine forte, pulita e giocosa, per un marketing concorrenziale fra le città. In questi anni, forse, ha avuto ragione Antonio Presti: abbiamo bisogno di Bellezza. Non effimera, con amore. In fretta, oggi stesso, prima che passi l’ultimo metrò.
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