Catanese picchiato e arrestato in Cisgiordania «L’esercito israeliano ci ha caricati all’improvviso»

Bil’in è un villaggio palestinese a 30 chilometri da Gerusalemme, al confine con la Cisgiordania. «Vale a dire i territori occupati, o la Palestina». Le cronache ne parlano perché è uno dei paesi in cui la popolazione locale protesta contro l’occupazione dei coloni israeliani. È lì che si trovava venerdì pomeriggio Antonio Fresta, 41enne catanese che, lo scorso 10 ottobre, è partito per il Medio Oriente con l’International solidarity movement. Ed è a Bil’in che Antonio è stato bloccato, picchiato e arrestato dall’esercito di Israele, nel corso di una manifestazione. «Qui si fa ogni venerdì. È una camminata lungo il muro, alto 15 metri, che separa i territori controllati da Israele da quelli palestinesi», racconta Antonio. Lui e altri cinque, sei volontari internazionali erano passati avanti, con le macchine fotografiche in mano, documentando tutto. Pochi passi «e vediamo all’improvviso l’esercito che smette di controllarci a vista e ci carica. Io sono scappato, loro mi hanno bloccato e buttato per terra. Mi tenevano fermo con le ginocchia, mi hanno spruzzato per tre volte lo spray al peperoncino negli occhi. Mi hanno infilato la testa sotto la maglietta e ho smesso di respirare. Poi mi hanno fatto prendere fiato e mi hanno premuto i pollici sulle palpebre. Sono passati due giorni ma ancora non riesco a sopportare la luce».

«Sono contento, sono vivo e sono pure libero», sorride l’attivista etneo, laureato in
Scienze forestali, un passato da cooperante per due anni in Tanzania e un altro passato da lavoratore della terra a Castelvetrano, su un terreno confiscato alla mafia. «Per portarmi sulla jeep hanno dovuto chiamare una barella. Non avevo la forza per stare in piedi – ricorda – Dentro a quella macchina un soldato mi ha chiesto perché io fossi con i palestinesi e mi ha dato un pugno in faccia. Mi ha fatto una seconda domanda e mi ha dato un altro pugno». Col mezzo dell’esercito erano diretti al checkpoint di Nahaleen. Lì Antonio prima è stato costretto a inginocchiarsi sotto il sole, poi è stato perquisito e tutto quello che aveva con sé gli è stato sequestrato. «Questa è una cosa che potrebbe fare solo la polizia. Ma loro sono l’esercito e fanno tutto quello che vogliono». Dentro al commissariato di Nahaleen Antonio è stato interrogato due volte. Era accusato di essere entrato in una zona militare chiusa, di aver intralciato il lavoro dei militari e di aver partecipato a una manifestazione illegale. «Parlavano poco inglese, e volevano che io firmassi un documento scritto interamente in ebraico», spiega.

A mezzanotte lui e gli altri arrestati
sono stati rilasciati. Con loro c’era anche un palestinese, che si era fatto arrestare per non lasciarli da soli. «Conosceva i soldati, in caserma parlava e scherzava. Quando siamo andati via si sono salutati cordialmente, dandosi appuntamento alla prossima volta, alla prossima manifestazione». Come se fosse una cosa normale. «Sembra quasi che qui tutto sia un gioco, perfino la vita e la morte lo sono», commenta Antonio. Da quando è lì, poco più di un mese, ha aiutato i palestinesi del villaggio di Huwara, nelle vicinanze di Nablus, a raccogliere le olive. «Due settimane fa sono arrivati quattro militari, tutti armati. Girano sempre armati – sostiene Antonio – Ci hanno detto che dovevamo lasciare il campo e tornarcene al villaggio». Nei territori occupati, quelli in cui vivono i palestinesi, alcuni villaggi sono i soli luoghi sui quali hanno la sovranità. Il resto è per lo più la cosiddetta zona B, un posto in cui l’autorità militare riconosciuta è quella dello Stato di Israele. «Noi abbiamo spiegato di aver avuto il permesso dalle autorità israeliane e nel frattempo abbiamo visto scendere i coloni». Le colonie sono aree occupate illegalmente dagli israeliani all’interno delle terre palestinesi. «La cosa che ha fatto veramente impressione – dice Antonio – è stato vedere il terrore negli occhi dei nostri amici palestinesi. La paura nel vedere arrivare i coloni e nel non poter prevedere cosa avrebbero fatto. Per la cronaca: ci hanno cacciati a sassate».

«Ho deciso di venire qui per
raccontare tutto questo», continua il catanese. E dopo l’arresto subito è ancora più convinto del suo proposito: «Voglio testimoniare quello che accade. Ho voluto vederlo con i miei occhi, adesso voglio rendermi utile e far sì che le mie descrizioni servano a qualcosa. Sono convinto che la questione palestinese troverà risposta solo nel lungo periodo, intanto è importante il lavoro di diffusione delle notizie per creare consapevolezza da parte della gente». Il volo con il quale Antonio dovrebbe tornare in Italia è fissato per il 9 dicembre. «Ma io qui ci voglio tornare – conclude – Dopo l’arresto, il primo arresto della mia vita, non so neanche se mi abbiano messo nella loro black list. Io il modo di venire lo troverò comunque».

Luisa Santangelo

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