«Stanno processando uno che nemmeno c’è». È questo che si vocifera nell’aula della quarta sezione penale del tribunale di Palermo. Ma dopo nove mesi di indagini, ambiguità e dubbi ancora non del tutto dissipati, il processo a carico del presunto boss della tratta di migranti Yehdego Medhanie Mered potrebbe essere sempre più vicino a una svolta. Durante l’udienza di questa mattina, infatti, il presidente della corte Raffaele Malizia ha autorizzato la richiesta avanzata dall’avvocato Michele Calantropo:sottoporre il detenuto al test del Dna. I risultati potrebbero poi essere facilmente comparati con quelli relativi ad alcuni familiari dell’uomo in galera, che ha sempre detto di essere vittima di un clamoroso scambio di persona e di chiamarsi in realtà Medhanie Tesfamariam Berhe. Il giudice è perplesso all’inizio: «Questi familiari dove avrebbero eseguito il test? In che condizioni?». Ma è solo un attimo. Alcuni di loro sono stati precedentemente ammessi nell’elenco di testimoni della difesa, per cui potrebbero nuovamente sottoporsi al prelievo qui.
L’accusa accenna un tentativo poco convinto di opposizione alla richiesta di Calantropo: «Il 2 febbraio abbiamo ricevuto comunicazione dal carcere Pagliarelli in merito al rifiuto del detenuto di sottoporsi al test. Com’è che ora ha cambiato idea?», chiede il pm Geri Ferrara. Ma non si è trattato di un vero e proprio diniego: l’avvocato chiarisce subito che il suo cliente era stato prelevato dalle guardie senza avere accanto un interprete che gli spiegasse la situazione, «era spaventato, non aveva capito cosa volessero fargli». Un malinteso, dunque, già chiarito anche con il carcere. «Non vedo alcuna rilevanza probatoria per questo esame così invasivo», ribatte Ferrara. La decisione però passa nelle mani del giudice, che opta per autorizzare l’esame. Un passo che, più in là, potrebbe finalmente gettare luce sull’intera faccenda.
Nel frattempo il processo continua indisturbato il suo corso. Questa mattina tocca all’ispettore Giovanni Mauro della squadra mobile di Agrigento pronunciarsi di fronte alla corte. Il funzionario, impegnato in prima linea durante le indagini di Glauco 2, risponde puntuale e con metodo quasi mnemonico alle sollecitazioni dei pm. Le domande di Ferrara, in particolare, puntano tutte a ricostruire l’attività criminale di Yehdego Medhanie Mered in quanto trafficante, restando ben lontane dal diradare le ombre sulla questione dell’identità del detenuto, data per scontata. Al boss Mered facevano capo due utenze telefoniche, una libica e un’altra sudanese, che usava in base ai suoi spostamenti.
«A spostarsi era lui, non il telefono – spiega in aula il test – Il telefono usato in Libia non si è mai spostato da quella zona, quando lui era in Sudan restava in uso ai suoi complici». Le intercettazioni degli inquirenti hanno coperto un lasso di tempo pari a circa sei mesi, da fine maggio a dicembre 2014, captando e registrando tra le 20mila e le 30mila telefonate. A emergere immediatamente sono stabilità, intensità e frequenza dei rapporti fra gli adepti dell’organizzazione criminale. «Nelle telefonate i complici si rivolgevano a lui chiamandolo Meda – precisa il test – altre volte Yehdego oppure Medhanie». Nome in parte simile a quello dichiarato dall’uomo al Pagliarelli e che potrebbe spiegare, in caso di scambio di persona, perché sarebbe avvenuto l’errore al momento dell’arresto in Sudan.
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