Caso Mered, i dubbi sulle autorità sudanesi Il fratello: «Non mi fido, mentiranno sempre»

«Non mi aspetto nulla di buono da queste persone che, come si dice dalle mie parti, cantano sempre la stessa canzone». Ha più d’una perplessità Noh Tesfamariam, rispetto ai prossimi testimoni che dovranno comparire a Palermo di fronte ai giudici della seconda corte d’assise, dove si celebra il processo a carico del presunto trafficante di uomini Yehdego Medhanie MeredNoh è il fratello del ragazzo imputato e detenuto ormai da oltre due anni al Pagliarelli, che sarebbe stato, secondo lui, vittima di un terribile scambio di persona. Più di una volta, infatti, il familiare non ha mancato di sottolineare che il fratello, che risponderebbe al nome di Medhanie Tesfamariam Behre, non solo non sia il boss della tratta ritenuto responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, ma che non abbia mai avuto neppure l’occasione di conoscere o avere contatti col vero trafficante. Al processo non sono mancati, citati dall’avvocato difensore Michele Calantropo, testimoni chiave legati a Mered che non hanno riconosciuto nell’uomo a processo il boss, che quindi sarebbe ad oggi un latitante: dalla moglie Lidya Tesfu, che oggi vive in Svezia, al fratello videocollegato dall’Olanda Merhawi Yehdego Mered.

Il 15 aprile potrebbe essere invece il turno di Amir Ibrahim Abdelsadig ed Elsadeg Mohamed Elnour Abdelrahman, appartenenti alle autorità sudanesi. Il primo è infatti un colonnello che ha preso parte alle indagini per catturare il super trafficante, collaborando con l’Nca inglese. Mentre il secondo uno dei poliziotti che lo hanno materialmente arrestato il 24 maggio del 2016, mentre se ne stava seduto in un bar di Khartoum a sorseggiare un the. Entrambi citati a processo dal sostituto procuratore Calogero Ferrara. «Io non ho mai sentito questi nomi – commenta intanto Noh Tesfamariam -, non ho sentito niente». Non li conosce, il fratello del ragazzo imputato, ma a priori sente di dover diffidare di loro. «Secondo me sono stati i primi ad aver commesso un errore – prosegue -, visto quello che hanno fatto. Non mi fido di loro, mentiranno sempre, tutti gli agenti della polizia sudanese sono corrotti, lo sanno tutti», osserva con amarezza. Additati spesso di essere il braccio destro di un governo dittatoriale e di scendere a patti, in cambio di lauti pagamenti e favori, con gli stessi trafficanti di uomini cui dovrebbero dare la caccia, diventano adesso testimoni dell’accusa: «Condanno fortemente questa scelta di portarli a processo, la procura di Palermo collabora con loro?», si domanda perplesso.

«Hanno picchiato mio fratello per due settimane in prigione, prima dell’estradizione. Meda lo ha detto a mia mamma, e lei poi me lo ha raccontato – rivela ancora Noh Tesfamariam, denunciando le vessazioni subite dal ragazzo oggi rinchiuso al Pagliarelli -. Io non sono mai stato in Sudan, ma molti amici mi hanno ribadito che lì gli agenti di polizia sono notoriamente corrotti, che non hanno umanità». Circostanze che potrebbero anche emergere più chiaramente dal loro stesso esame qui a Palermo, fra due settimane. Anche se Noh Tesfamariam non nasconde di temere, in qualche modo, questo momento. «Gli agenti sudanesi fanno anche loro parte del gioco, quello messo in piedi anche dalla procura di Palermo e dalle autorità inglesi» dice, alludendo alle indagini e alla ricostruzione del caso che i magistrati hanno presentato al processo. Una preoccupazione legittima, la sua, alimentata anche dalla distanza col fratello, che non vede e non sente da quasi tre anni. A Palermo, infatti, lui non è mai potuto venire. E già fare incontrare, per pochi istanti, il ragazzo detenuto con la madre, che si è sottoposta al test del Dna per provare la loro parentela, non è stato semplicissimo.

«Penso sempre a lui, sento il suo dolore e la sua tristezza», rivela il fratello, che di fronte a quello che è successo alla sua famiglia riesce a trovare conforto solo nella preghiera. «Chiedo a Dio di prendersi cura di lui, di dargli la forza e soprattutto piena salute, di non stressarsi, per quanto possibile – dice -. Io e nostra madre soffriamo moltissimo per quello che gli hanno fatto». Ma di tentare strade investigative alternative non se ne parla, non ne avrebbero le energie economiche necessarie né la fiducia sufficiente. Il loro unico contatto con quello che sta affrontando il loro caro rimane l’avvocato difensore. «Non sappiamo cosa potremmo fare di più per aiutarlo. Spero che possa tornare presto a casa, lo spero fortemente». Ma le testimonianze e, si può azzardare, i colpi di scena al processo sono stati spesso intervallati da una fila di udienze, una appresso all’altra, andate in fumo. Le ultime (fatta eccezione per una), da gennaio a questo lunedì, sommate insieme non sono durate nemmeno cinque minuti, ognuna rinviata per una ragione diversa. L’ultima, fissata a inizio settimana, avrebbe dovuto fare già entrare in aula i due testimoni sudanesi, che però non hanno ottenuto il visto d’ingresso in Italia e sono stati rimandati ad aprile. In assenza, infatti, di un provvedimento della corte stessa, la sola citazione della procura non può bastare, ne servirà una formalmente inviata dai giudici.

Silvia Buffa

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