«Si era partiti per un pestaggio, non sapevo che poi andava a finire così, che sarebbe morto». Lo ripete più volte, Antonino Siragusa. Imputato per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà, brutalmente aggredito il 23 febbraio del 2010 e morto tre giorni dopo, ha ripercorso quella sera davanti ai giudici della prima corte d’assise di Palermo. È l’unico, di quel commando, che si è recato sul luogo del pestaggio, via Turrisi, con l’auto della moglie. Nessun mezzo rubato nel suo caso, nessuna targa occultata, ma una vettura che riconduce dritto a lui. Circostanza che a suo dire dimostrerebbe che non sapeva che quel pestaggio sarebbe poi diventato un omicidio a tutti gli effetti. Di quella sera racconta ogni dettaglio: orari, telefonate, incontri, organizzazione, tutto. Vuole parlare, Siragusa. E la sua è una scelta maturata da tempo. Anche se fino all’anno scorso non voleva che circolasse la notizia che lui aveva intenzione di collaborare. E i ripensamenti, nel frattempo, non gli sono mancati.
Dentro Cosa nostra c’è praticamente nato, anche se l’affiliazione a tutti gli effetti alla famiglia di Borgo Vecchio avviene nel 2002 e solo nel 2009 commette la prima estorsione. I suoi rapporti, nell’ambiente, sono soprattutto con Antonino Abbate e Salvatore Ingrassia, imputati insieme a lui. Il primo, a sentirlo oggi in aula, era il capo famiglia di Borgo Vecchio, l’altro invece era un suo pari, si occupavano di estorsioni, rapine e taglieggiamenti insieme. Ma dopo una breve ricognizione, ecco la fatidica domanda: «Cosa accadde il 23 febbraio 2010?». Siragusa parte dal ricordo di quel pomeriggio. «Abbate ci disse a me e a Ingrassia di non prendere impegni per quella sera, perché dovevamo darle a una persona. Eravamo in via dello Spezio, all’agenzia dove stavamo quotidianamente. Non ricordo bene l’orario, era pomeriggio», dice. Alludendo alla vecchia agenzia di scommesse da tempo dismessa che lui e altri imputati utilizzavano come punto di riferimento, come ritrovo, una sorta di ufficio dove però non avveniva alcuna attività. «Lì venivano persone che parlavano di fatti illeciti e persone che magari venivano a chiedere informazioni su qualcuno».
All’inizio di quella telefonata non si sa neppure chi dovrà essere il destinatario di quelle botte. Ma è un mistero che dura lo spazio di qualche secondo. «Dobbiamo darle all’avvocato Fragalà. Gregorio – vale a dire Gregorio Di Giovanni, condannato per mafia in via definitiva, capo mandamento di Porta Nuova…ndr – vuole che lo facciamo noi, io gli devo dare i colpi di mazza», avrebbe detto Abbate secondo il racconto fatto oggi dal teste. «Perché invece di fare l’avvocato fa il carabiniere», avrebbe spiegato. A questa frase si alza il brusio in aula e gli imputati, rinchiusi nel loro gabbiotto di vetro, sembrano fremere. Francesco Arcuri, altro imputato accusato di essere il mandante dell’omicidio, subentra più avanti nel racconto di Siragusa. È sempre il 23 febbraio: Arcuri parla in disparte con Abbate, poi si avvicina a lui e a Ingrassia e chiede «Avete capito cosa dovete fare?», alludendo all’appuntamento di quella sera. Solo venti minuti prima Siragusa aveva chiamato lo studio dell’avvocato Fragalà: fingendo di essere un potenziale cliente che doveva spostarsi da un paese, chiede a che ora stacchi il penalista e fino a quando può trovarlo in ufficio.
Messi a punto gli orari, il piano passa alla fase successiva. Stabilire le modalità. «Io, Ingrassia e Abbate abbiamo discusso di quali mezzi usare. Loro due sarebbero andati sul posto con il motore, io dovevo prima lasciare mia moglie a lavoro, prendere la mazza e poi raggiungerli al tribunale». Mazza che inizialmente era stato chiesto di recuperare a Francesco Castronovo, imputato in questo processo. «Lui però non si è fatto vedere, si stava facendo tardi e allora c’ho pensato io a trovarla – racconta Siragusa -. Sono andato in un magazzino che conoscevo e ho trovato un piccone. Ho staccato la parte superiore in ferro e ho tenuto il manico. Poi sono andato a posarla in agenzia, per riprenderla infine poco prima dell’aggressione». Siamo all’ora fatidica. Siragusa se ne sta in macchina, posteggiato a metà fra lo studio di Fragalà e il punto in cui di lì a breve verrà tramortito. Mentre aspetta, si infila in auto Abbate, è arrivato anche lui insieme a Ingrassia, che resta a bordo del suo Sh. I due fumano una sigaretta, parlano, fino a quando non vedono uscire l’avvocato, che gli passa davanti.
«Abbate si è messo il casco, si è girato a prendere la mazza che stava sul sedile posteriore, è sceso è ha cominciato a colpirlo. Non lo vedevo bene dove lo colpiva perché accanto a me c’erano altre auto, vedevo la scena attraverso i finestrini delle macchine – ripercorre Siragusa -. Lui poi doveva risalire in macchina con me. Quando ha finito infatti gli ho aperto lo sportello ma invece è andato dritto verso Ingrassia e si è messo in sella al motore. Ho fatto retromarcia velocemente e si è aperto lo sportello, mi sono allungato e l’ho chiuso forte. Alcuni testimoni hanno pensato che questo rumore fosse perché avevamo buttato la mazza, ma non fu così». No, infatti. Della mazza si liberano poco dopo, imboccando via La Farina, gettandola dentro a una campana per raccogliere il vetro. Alcuni giorni dopo tutti e tre torneranno in quel preciso punto, per bruciare tutto. «Per sviare un po’ ho dato fuoco anche ai cassonetti accanto, non solo alla campana».
Ma in questa storia, per l’accusa, ci sono anche Castronovo, che era stato incaricato di reperire l’arma per il pestaggio, e Paolo Cocco. Entrambi a processo insieme agli altri. Ma che questa mattina a più riprese Siragusa chiama fuori. «Non sto raccontando queste cose per scagionare qualcuno o accusare qualcun altro, sto solo dicendo cosa è successo quella sera. Lo so che in passato ho mentito, ma da tempo ho pensato di voler collaborare, solo che ero confuso, mi sentivo con le spalle al muro. Ma lo ripeto: Castronovo e Cocco quella sera lì con noi non c’erano». Non solo non partecipano all’aggressione, secondo il racconto del teste, ma non sono neppure a conoscenza del piano. Eppure nella vicenda a un certo punto entrano anche loro. «Finito tutto io, Ingrassia e Abbate ci siamo diretti a Borgo Vecchio, dove siamo arrivati quasi insieme. Ho visto Castronovo e Cocco, gli ho chiesto se potevano accompagnarmi a lasciare l’auto a lavoro da mia moglie e darmi un passaggio per tornare». I due acconsentono e lo scortano. Lasciata l’auto, Siragusa se ne va con loro e Ingrassia.
Fino a quando chiede di deviare e di passare dal tribunale. «Non ho spiegato il motivo, non ho detto nulla. Quando siamo passati dal luogo dell’aggressione erano rimaste solo un paio di volanti e qualche carabiniere intento a mettere il nastro per isolare la scena. Ricordo che piovigginava, ma poi niente più, ci siamo allontanati e loro due forse non si sono nemmeno accorti di niente». Intanto, all’indomani la cronaca non parla d’altro. «Leggevo che l’avvocato era in fin di vita. Dissi ad Abbate che quasi lo ammazzava. “Acussì si insigna a fare l’avvocato”, mi ha risposto». Siragusa insiste, chiede spiegazioni, chiede per esempio perché arrivare a quel punto, «tanto valeva sparagli allora. Ma Abbate mi disse che in quel modo si sarebbe capito subito che eravamo stati noi».
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