«Per l’ennesima volta, l’Italia viene richiamata dal mondo per quello che è successo all’interno della scuola Diaz. Ma la politica di questo non si preoccupa». Goffredo D’Antona è l’avvocato di Catania che, nel 2012, ha lanciato una petizione per chiedere le dimissioni di Gianni De Gennaro da sottosegretario alla Sicurezza. Ventimila firme raccolte affinché l’uomo che era a capo della polizia nei giorni del G8 di Genova — ricordati per le violenze delle forze dell’ordine contro i manifestanti — lasciasse il ruolo istituzionale che gli era stato affidato dall’allora presidente del consiglio Mario Monti. Oggi De Gennaro è presidente di Finmeccanica e la corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha riconosciuto che i pestaggi degli agenti, avvenuti all’interno della scuola Diaz il 21 luglio 2001, sono stati delle torture. La sentenza arriva dopo il ricorso di Arnaldo Cestaro, militante di Rifondazione comunista, all’epoca dei fatti 62enne. Cestaro uscì dalla Diaz con fratture a braccia, gambe e costole. «Adesso l’Italia dovrà risarcire a quell’uomo 45mila euro a titolo di danni morali — spiega D’Antona — Ma tanto continuerà a non cambiare nulla».
«In questo Paese manca uno strumento per punire le torture, perché non esiste una legge che le riguardi», afferma il penalista catanese che, tre anni fa, aveva inviato a Monti le migliaia di adesioni raccolte dall’appello per chiedere le dimissioni di De Gennaro. Tra i firmatari, anche la famiglia del giovane Carlo Giuliani, morto durante le contestazioni, e Dario Montana, fratello di Beppe, commissario di polizia ammazzato dalla mafia a Santa Flavia, nel Palermitano, nel 1985. Ma, nonostante tutto, Gianni De Gennaro rimase al suo posto. «Lui non è stato scalfito, anzi. Ha fatto una carriera sfolgorante, così come tutti quelli che, assieme a lui, in quei giorni avrebbero dovuto garantire l’ordine pubblico». «Il risarcimento di 45mila euro è necessario perché nell’ordinamento italiano manca una sanzione diretta che punisca chi tortura. Le condanne più gravi per i fatti di Genova riguardano l’aver dichiarato il falso, ma le violenze alla scuola e nella caserma di Bolzaneto sono una questione ben più intollerabile, sulle quali la politica deve interrogarsi».
«Da quei giorni del 2001 i rapporti tra i cittadini e la polizia non si sono più ripresi. Perché ci sono tragedie con le quali l’Italia non ha voluto fare i conti. La commissione parlamentare d’inchiesta fu fatta fallire, non si è mai capito chi c’era alla centrale operativa a dare gli ordini né chi comandava le operazioni», prosegue Goffredo D’Antona. «A piazza Taksim, in Turchia, gli occhi del mondo erano puntati sul fatto che gli agenti turchi avessero nascosto i loro codici identificativi per agire con violenza contro i manifestanti. In Italia quei codici proprio non ci sono. Perché? Non sono numeri di matricola pubblici. Li ha solo la questura, che poi li passa, se necessario, alla procura». Rendendo più facile il riconoscimento dei responsabili nel caso in cui, come è accaduto a Genova, fossero le forze dell’ordine a commettere dei reati. «La polizia preferisce tutelare i poliziotti disonesti, perché quelli onesti non avrebbero nulla da temere».
A questi elementi, si aggiunge il silenzio del governo. «È come se la politica avesse paura dei poliziotti. Ricordiamo che nessuno ha detto niente quando il sindacato autonomo di polizia ha applaudito gli assassini di Federico Aldrovandi. Il problema è che gli agenti onesti, che ci sono e sono tanti, non si arrabbiano», continua il legale. Adesso, all’indomani della sentenza della corte europea, però Goffredo D’Antona non si aspetta nessun cambiamento: «Non è successo niente in 14 anni, non si capisce perché dovrebbe succedere qualcosa adesso».
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